Pasqua è alle porte, in ogni casa napoletana che si rispetti non mancheranno i piatti della tradizione culinaria. Piatti dalla preparazione complessa o semplice di cui ogni famiglia si vanterà di essere depositario della ricetta originaria. Acclarato il valore culturale e identitario di alcune pietanze, è molto spesso però più difficile reperirne l’archetipo che sta all’origine della preparazione. Cercheremo in questo articolo di raccontarne qualcuno.
Acqua di mille fiori, cannella, fragranza di forno; questa è l’aria primaverile che invade le strade quando si avvicina la Pasqua in città. Il nostro racconto comincia da via San Gregorio Armeno all’altezza del numero civico 13. Se, con la gentilezza che contraddistingue ogni vero partenopeo, riusciremo a far spostare un poco la bancarella ingombra di pastori all’artigiano presepiale, riusciremo ad ammirare lo splendido rilievo di una canefora che è ivi esposto da appena ventuno secoli. La leggiadra vergine portatrice di canestro e fiaccola rappresenta una delle sacerdotesse della dea delle messi, Demetra, che abitavano il tempio ad essa dedicato che insisteva al posto della chiesa successivamente dedicata al Santo del Ponto Gregorio.
Il mito lega Demetra alla città di Napoli a doppio filo. Tutti ricordiamo di come la fanciulla figlia di Persefone fu rapita da Ade, contro la sua volontà, nel regno infero e costretta a rimanerci per sei mesi all’anno, sepolta come viene sepolto il grano per poi ritornare in primavera facendo rifiorire il mondo. Non tutti sanno che Parthenope, Leucosia e Ligeia, ancelle di Demetra, furono tramutate in sirene da Persefone per non aver sorvegliato a dovere la figlia. La stessa sirena Parthenope venuta a morire sugli scogli del golfo, è divenuta nume tutelare della città.
Come racconta lo storico Giulio Cesare Capaccio (e come si evince da alcune lapidi di spoglio conservate al MANN), era usanza delle sacerdotesse della Dea offrire ai fedeli focacce di grano e cacio farcite di uova, nel giorno dell’equinozio primaverile. Grano, cacio e uova erano alimenti sacri al culto eleusino perché rappresentanti la rinascita della terra dopo il freddo invernale. Questo tipo di focaccia veniva nominato panis caseus, da cui deriverebbe il nome della torta rustica a forma di ciambella regina delle feste pasquali: sua maestà il casatiello.
Nell’ottica sincretistica operata dalla Chiesa nei primi secoli cristiani le feste primaverili di palingenesi in onore di Demetra si trasformarono nella Pasqua di resurrezione cristiana: dalle pagnotte di caseus al casatiello per la gioia di palati nuovi e antichi.
Altra ipotesi sull’origine della straordinaria pietanza la troviamo nel libro “Il cibo racconta Napoli” di Yvonne Carbonaro per i tipi della Kayros. La saggista campana fa risalire il casatiello alla pagnotta prodotta dagli antichi romani detta “panis adipatus”, preparato con sugna, lardo, cicoli (residui della preparazione dello strutto) e pancetta di maiale. Il primo riferimento letterario al casatiello è tardo e lo ritroviamo nel poemetto in lingua napoletana del poeta e scrittore di villanelle Velardiniello (secolo XVI), “Storia de Cient’anne Arreto”. Il poeta, di cui è ignota l’identità, racconta appunto di cento anni prima, durante il regno aragonese, quando c’era la possibilità di acquistare a buon mercato le carni e le delizie del contado: “pe’ sei gràna aviva recotta, fave e casàtiello”.
Ennesimo riferimento letterario è da ricercare nel “Pentamerone” di Giambattista Basile più conosciuto col titolo di “Lo cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille”del 1636. Nella sesta favola della prima giornata, La gatta Cenerentola, antenata della più famosa Cenerentola di Charles Perrault e dei fratelli Grimm, nella descrizione dei festeggiamenti dati dal re per trovare la fanciulla che aveva perso la scarpetta troviamo un’interessante testimonianza della cucina napoletana del Seicento che dimostra la diffusione, già all’epoca, di tipici piatti campani – consumati tradizionalmente nel periodo pasquale – come la pastiera e il casatiello: «E, venuto lo juorno destenato, oh bene mio: che mazzecatorio e che bazzàra che se facette! Da dove vennero tante pastiere e casatielle? Dove li sottestate e le porpette? Dove li maccarune e graviuole? Tanto che nce poteva magnare n’asserceto formato”.
Quindi, quando ce lo ritroveremo sulla nostra tavola, delizioso tentatore, sapendo qualcosa in più del suo illustre passato, l’onoreremo mangiandolo forse con maggiore gusto:
Cu’ na’bbona salute!