Un sabato di novembre. Pomeriggio tardo, prima serata. Napoli. Acqua e vento hanno falciato la città per ore. Alle diciannove tutto sembra essersi placato. L’acqua ha trascinato via rifiuti e, sembra, anche le persone. I marciapiedi sono sgomberi da ombrelloni e tavolini di bar, pizzerie e trattorie. Restano in piedi, anche se strapazzati, i gazebo fortificati dei ristoratori meno improvvisati. Molte persone sono rimaste rintanate in casa. Il traffico di auto sembra essersi disciolto. Il manto nero, irregolare, butterato del lastricato delle strade del centro storico riluccica. Il riflesso delle luci elettriche lo ha trasformato in un cielo stellato rovesciato senza luna. L’udito si riposa. Poche urla, pochi motori scoppiettanti, poche sirene. L’isterico strombazzare delle auto semplicemente non c’è. Da settimane, quando ancora le temperature erano alte, i commercianti hanno riempito gli scaffali di mercanzie natalizie e installato luminarie sempre più ridondanti, moltiplicate all’infinito. La violenta pioggia di sabato ha rallentato tutto, e tutti sembrano essersi presi una breve pausa.
Siamo arrivati a Piazzetta Trinità degli Spagnoli, a LaCasaforte. Un moncone di un vecchio convento che nei secoli ha avuto le più diverse destinazioni. Lo hanno recuperato e ora ci vivono e ci lavorano Valeria e Antonio con i loro figli, cani e gatti. La ritroviamo ripescando nella nostra memoria recente perché non ci sono indicazioni, se non una piccola sbiadita targa sul portone d’ingresso. Un lungo e altissimo androne, una galleria, una porta aperta. Non si paga biglietto, si è a casa di amici quali sentiamo, dopo poco, essere tutti gli altri ospiti. Un bancone seminascosto, brocche di vino rosso, taralli. Su una delle pareti di questo spazio aperto/chiuso una pioggia di luci, una pioggia digitale, scorre regolare e ripetitiva. Con il suo normale tono di voce simile ad un sussurro Valeria invita Antonio di andare al pianoforte. Qualche gradino in legno e un altro spazio ci accoglie. Assi di legno allineate ne costituiscono il pavimento. Una nuova galleria ma ora la volta è più bassa. La pioggia di luce ha un contorno elicoidale, i colori sono due, l’argento e un verde. Qualche ombrello aperto al centro della stanza. Un corpo di donna, immobile, statuario, in piedi, adagiato al muro, rannicchiato dietro un ombrello. Antonio inizia a suonare. La statua prende vita e lentamente, lentissimamente inizia a muoversi. Le sue movenze incantano. Percorre lo spazio argenteo e raggiunge la parete verde. Entrano in scena le ombre, le sue, del suo corpo, del suo ombrello, del suo muoversi. Tutti noi disposti lungo il muro seduti sul tavolato di legno. Il cespuglio di ombrelli prende vita e altri corpi si muovono e la danza è collettiva. Le ombre si intersecano. Valeria inizia uno scambio di ombrelli, li offre a noi spettatori e ci invita a mischiare le nostre ombre con quelle di tutti gli altri.
Abbiamo vissuto una esperienza meditativa collettiva. Da una pioggia fredda e bagnata ad una pioggia calda e asciutta ma non meno penetrante. Una visione ci ha ricongiunti. Non c’è spazio per la mondanità e di questo qualcuno appare deluso. Non c’è mercimonio, non c’è commercio. La forza della pioggia asciutta e calda è forte. E ci fa riflettere. Nelle sue esagerazioni natura e vita da noi hanno una universalità che manca alla pioggerellina costante e noiosa di Parigi. Da noi la pioggia è quasi sempre tempesta. Si combatte a tener aperti gli ombrelli, a non farli rivoltare. L’acqua la calpestiamo, ci cadiamo dentro, ne siamo travolti. Con gli artifizi delle creatività cerchiamo di addolcirne la violenza. Lungo il nostro breve percorso di vita vediamo impotenti tanti cadere e non rialzarsi. Li vediamo annegare nei mari o nei crateri delle bombe. Cerchiamo ombrelli, sempre più grandi e resistenti ma “si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”.
Ci chiediamo se è possibile un’arte in grado di esprimere dolore e disperazioni. I disperati, gli innocenti mutilati e uccisi hanno la necessità di provare e mettersi in salvo dalle acque profonde, dalla violenza di schegge di bombe, dal rombo dei proiettili, dalla furia delle inondazioni, dal franare di montagne, dall’esplodere di vulcani. Ne vivono la drammatica occasionalità. E noi, dall’altra parte dei mondi delle disperazioni, li osserviamo da lontano rassicurati che quella loro è una realtà che abbiamo cambiato e che ci auguriamo non possa più tornare nelle nostre terre. A voi artisti visionari con la potenza del vostro fare osiamo chiedere di aiutarci a renderci consapevoli che è possibile ritrovare un’estetica non salvifica e consolatoria, ma fattiva, del fare. Siamo usciti dai templi di tutte le religioni dove l’estetica della vita è cercata nella morte, nel raggiungere un altro status immateriale. Abbiamo oggi necessità di una estetica in questa terribile e drammatica nostra vita. “Spengiti, spengiti breve candela! La vita non è che un’ombra che cammina, un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla.” – Macbeth: atto V, scena V.