Dopo i risultati delle recenti elezioni si è fatto più vivo il dibattito tra progressisti e conservatori, bipolarismo che in politica è sempre esistito. Molti si chiedono l’origine di queste opposte posizioni, dando le risposte più varie: l’ambiente sociale e culturale in cui si è cresciuti, le esperienze di vita, un trauma psicologico, la tradizione familiare… Il background che abbiamo respirato nei primi anni di vita resta sempre sullo sfondo durante la nostra vita adulta. Senza trascurare che secoli di civiltà, nonostante le guerre, hanno segnato la nostra convivenza con la conquista di diritti (e doveri) che oggi non si pensa di mettere in discussione e che sono la base del progresso civile. Basta pensare al diritto di voto per le donne, giunto solo nell’immediato dopoguerra.
La nostra mente, ricordiamolo, non è una “tabula rasa”, una pagina bianca, ma una fonte in cui sono iscritti gli ineludibili imperativi darwiniani di sopravvivenza e riproduzione. Tali impulsi ci guidano nelle scelte e nelle preferenze, smascherando certe attitudini, aldilà di ogni livello di consapevolezza. Per la sopravvivenza, il nostro sistema fight or flight (combatti o fuggi) è sempre in allerta. Quindi il bisogno di sicurezza, figlio dell’istinto di sopravvivenza, è la guida che da sempre ha ispirato ogni regola di convivenza civile. Naturale conseguenza di questa necessità è stata un’opinione politica conservatrice. Quindi, a rigor di logica, dovremmo essere tutti conservatori, non solo in politica, e difensori dei consolidati pilastri sociali custodi di questo forte impulso innato, la patria, il proprio gruppo etnico-linguistico, la famiglia, la propria fede religiosa.
Qui subentra la psicologia, con interessanti studi fatti da ricercatori dell’Università della California su bambini e adulti. I primi, nello studio durato vent’anni, se a quattro anni si mostravano paurosi e inibiti, in età adulta, a 23 anni, avevano più probabilità di avere un’opinione politica conservatrice. Negli adulti invece queste opinioni si sono rilevate più frequentemente in soggetti che mostravano più timore o spavento e paura di fronte a rumori improvvisi, immagini spaventose o situazioni spiacevoli, disgustose o minacciose. Il bello è che il corrispettivo anatomico di queste differenti reazioni lo troviamo nelle dimensioni dell’amigdala, un agglomerato di nuclei situato nel lobo temporale, che è il centro cerebrale della paura e delle emozioni. Essa infatti è più grande nelle persone che si autodefiniscono conservatori. Quindi c’è un evidente nesso psico-anatomico tra il bisogno e la ricerca della propria incolumità e l’opinione politica. Questo è quello che ci dice la genetica.
L’epigenetica invece, una nuova scienza che rimarca il ruolo dell’ambiente nella possibilità di influenzare, fino a un certo punto, l’espressione genetica, ci dice che certe caratteristiche identitarie non sono immutabili, potendo subire durante l’esistenza dei cambiamenti, oppure consolidarsi se l’ambiente sociale in cui sono immerse non rivela alcuna discontinuità. Cioè un bambino timido e insicuro può rimanere tale per tutta la vita o, se le condizioni ambientali cambiano, trasformarsi in un temerario rivoluzionario o una via di mezzo, un progressista moderato.
Tornando ai giorni nostri, certo le destre devono fare i conti con la storia, e soprattutto con la situazione economica, nel portare avanti un programma conservatore, e per certi versi la tentazione a stravolgerlo è sempre in agguato, per non apparire troppo intransigenti o troppo tolleranti. Prendiamo ad esempio l’autonomia differenziata, un tema su cui tanto insistono le regioni leghiste del nord e qualcuno della sinistra (l’ex segretario PD Fassino). Si passa dalla difesa della nazione a quella della regione. Noi paghiamo più tasse, dicono, e lo stato ci deve premiare con più spesa e investimenti. Falso: la spesa corrente – calcoli SVIMEZ – è già di oltre 20 punti percentuali in meno nel mezzogiorno rispetto al centro-nord, perché i parametri di riferimento sono la spesa storica (come dire: a Scampia ci sono pochi asili nido, quindi non ne occorrono altri perché evidentemente è quello il fabbisogno!) e i LEP – i livelli essenziali di prestazione – che stabiliscono il reale fabbisogno di un territorio e che non sono mai stati definiti. E chi è il ministro? Il leghista Calderoli! Quello che chiamó “orango” una ex ministra del governo Letta, Cecile Kyenge, e per questo fu condannato in primo grado a un anno e sei mesi. Altro esempio di vetero-conservatorismo attraverso una patetica e anacronistica discriminazione razziale.
Allora, direte, il tipo di governo ideale è quello progressista, tradizionalmente di sinistra? Con i suoi estremismi (liberalizzazione delle droghe leggere, accoglienza indiscriminata degli immigrati, matrimoni tra omosessuali) e i suoi opportunismi (difesa ad oltranza del posto di lavoro a impresa fallita, reddito di cittadinanza incontrollato)? La risposta la trovo nell’unicità della persona, nelle sue fragilità, preferenze, aspettative, sogni, desideri, paure, inibizioni, che è riduttivo incasellare in una ideologia politica. Una unicità che deriva dalle componenti genetiche e ambientali alle quali non possiamo sottrarci e sfuggire perché sono alla base di ogni comportamento. Una unicità che spiega e giustifica la volatilità elettorale che a ogni elezione, scartata la minoranza dei “duri e puri”, ancorata a una fedeltà ideologica raramente messa in discussione, spinge il cittadino a cambiare la preferenza al partito. Volatilità che spiega la scomparsa, il ridimensionamento o l’affermazione di molti schieramenti. Volatilità che in fondo spiega anche perché un partito fermo al 4,3% nel 2018 vince le ultime elezioni e forma un governo di coalizione passando al 26%.
Insomma il partito ideale, che purtroppo non esiste, è quello che ci fa essere progressisti in una materia e conservatori in un’altra, in obbedienza alla nostra indole morale. Un ibrido che sogniamo e al quale rinunciamo – perché è irrealizzabile – o astenendoci dal voto o votando il partito che ha saputo meglio esaltare un aspetto critico della società (economico, ambientale, di sicurezza) al quale siamo più sensibili in quel momento. Lo psicologo premio Nobel Kahneman ha scritto: “lo stato mentale del momento ha un’enorme importanza quando le persone valutano la propria felicità”. E questo i politici lo sanno molto bene, a dimostrazione del fatto che la realtà è un costrutto mentale elaborato dal filtro della propria sensibilità ed esperienza.
Articolo interessante che spiega in modo semplice la natura umana quando deve prendere delle decisioni