In famiglia non sappiamo cosa pensare di quanto sta accadendo dal momento in cui la Russia ha invaso l’Ucraina. Le atroci vicende belliche che si sono abbattute sulla popolazione del territorio aggredito si intrecciano con quelle diplomatiche in maniera oscura, almeno agli occhi di noi semplici osservatori, assistiti dalle sole notizie di cronaca e dai commenti di politici ed esperti: mentre si bombarda e si lanciano minacce nucleari l’informazione ci racconta infatti che sono in corso intense trattative. Ed è infatti per merito delle trattative che i famosi milioni di tonnellate di grano ucraino stanno raggiungendo paesi sull’orlo della fame. Promotore di questo atto di responsabilità verso l’Ucraina ma anche, e soprattutto, verso i paesi che importano grano è stato nientemeno che Erdogan, il sultano turco al quale Draghi non esitò ad affibbiare la qualifica di “dittatore”, peraltro senza conseguenze, almeno fino a oggi. La nuova veste di Erdogan mediatore, ancora non dismessa, sorprende almeno quanto quella di Giuseppe Conte, proclamatosi capo della vera sinistra italiana.
Che poi lo sblocco delle esportazioni cerealicole sia, oltre che un gesto umanitario, anche il ripristino di transazioni commerciali di rilevanza mondiale temporaneamente sospese dalla guerra ci autorizza a pensare che gli indecifrabili intrecci tra gli eventi militari e l’attività diplomatica sotto traccia rappresentino solo in parte la realtà della guerra in corso. C’è infatti una terza componente da considerare ed è ancora una volta quella commerciale. Mentre centinaia di cittadini ucraini perdono la vita e milioni di loro la casa, la serenità e tutto quanto rende l’esistenza degna di questo nome, normali relazioni economiche intercorrono invece tra Gazprom e gli acquirenti europei di metano e petrolio.
Certo, le forniture subiscono tutti i disservizi funzionali alle mosse tattiche di Putin ma, bene o male, “the business goes on”. Questa sconcertante costatazione finale, estesa a tutto il globo, ci fa pensare che l’escalation nucleare sia lontana: un mondo semidistrutto provocherebbe la caduta verticale delle vendite su scala mondiale con conseguenze “disdicevoli” sulla massa dei profitti cui i poveri investitori ritengono di aver diritto. Che interesse dovrebbero dunque avere i colossi dell’esportazione, a partire dalla Cina, per una strage indiscriminata di consumatori? Ecco, Putin dovrebbe considerare che alla finanza globalizzata poco o nulla interessa se un cittadino che vive nel Donbass sia russo o ucraino. L’obiettivo secolare di ottenere per la Russia uno sbocco nel Mediterraneo cela forse anche un interesse di natura economica? Non è dato saperlo, ma la situazione sembra molto diversa dalle rivendicazioni che la Cina avanza da tempo su Taiwan: dietro il proclamato imperativo nazionalista di unificare tutto il popolo cinese (compresa quella parte che non lo desidera affatto) c’è anche la volontà di poter disporre delle copiose risorse minerarie dell’isola.
Non ci è sembrato possibile che Putin, da solo o con l’ausilio dei suoi oligarchi benestanti, non abbia considerato l’impatto che la sua “operazione speciale” sta avendo sull’economia globale e di quante maledizioni si stia pigliando dai tanti imprenditori che producono cose diverse dalle armi, maledizioni dalle quali non può proteggerlo neppure il suo novello Rasputin, Kirill, patriarca di Mosca e, non a caso, di tutte, ma proprio tutte, le Russie.
In famiglia siamo dunque giunti, nel corso di conversazioni e commenti alle notizie che arrivano di giorno in giorno, alla tranquillizzante conclusione che non ci sarà alcuna guerra atomica. Poi ci siamo guardati negli occhi con lo sguardo smarrimento di chi sa che non azzecchiamo una previsione politica da anni.
Vero, azzeccare previsioni politiche è quasi come vincere un terno. Appena due o tre anni fa Putin era un politico e partner commerciale affidabile, Erdogan un criminale dittatore; oggi l’uno è un pazzo criminale ripudiato da tutti, l’altro un pacifista convinto (o almeno ambisce ad accreditarsi come tale), un mediatore che ha trovato campo libero in assenza di interlocutori.