Contemplali, anima mia; essi sono davvero orribili!
Simili ai manichini; vagamente ridicoli;
Terribili, singolari come i sonnambuli;
Mentre dardeggiano non si sa dove i loro globi tenebrosi.
I loro occhi, in cui s’è spenta la scintilla divina
Come se guardassero lontano, restano levati
Al cielo; non li si vede mai verso i selciati,
Chinare, pensosamente, la loro testa appesantita.
Essi attraversano così il nero sconfinato,
Questo fratello del silenzio eterno. O città!
Mentre che attorno a noi tu canti, ridi e sbraiti,
Innamorata del piacere fino all’atrocità,
Guarda! anch’io mi trascino! ma, più inebetito d’essi,
Io dico: Cosa chiedono al Cielo, tutti questi ciechi?
Charles Baudelaire, I ciechi – Le fleurs du mal
“La parabola dei ciechi” di Bruegel il vecchio è un capolavoro conservato alla pinacoteca di Capodimonte. L’opera rappresenta l’episodio dal Vangelo di Matteo 15:14: “Lasciateli stare: sono ciechi che guidano i ciechi. E se il cieco guida il cieco, entrambi cadranno nel fosso.” Ottima metafora per rappresentare la cecità morale che da sempre ha limitato l’uomo: geneticamente spinto verso le seduzioni del potere e quasi privo di un orientamento etico innato; homo homini lupus.
La tempera su tela (86×154 cm), databile al 1568 circa, arrivò a Napoli insieme alla collezione Farnese nel 1734, per volere di Carlo III di Borbone, che ne acquisì la titolarità per successione della madre Elisabetta.
I sei personaggi dipinti sono rappresentati in diversi stadi di caduta. Sulle loro facce possiamo leggere le espressioni che virano dalla fiducia del primo cieco al terrore del penultimo. L’iperrealistica tecnica pittorica ha permesso, dopo svariati secoli, agli specialisti di oftalmologia di identificare le diverse patologia oculari di cui ogni singolo è affetto: glaucoma, atrofia del globo oculare, estirpazione dei bulbi, leucoma corneale. Da sempre nell’arte i non vedenti venivano rappresentati come persone povere o mendicanti, privati della vista ma resi saggi o veggenti nel topos letterario classico (Omero, Tiresia). I ciechi di Bruegel invece sono ben vestiti ed hanno borse piene. Non sono vittime della società poste ai margini, o illuminati pronti a distribuire versi o profezie, sono persone che hanno tragicamente smarrito il lume della coscienza. Sono infatti questi gli anni delle sanguinose repressioni religiose perpetrate contro i protestanti dall’esercito spagnolo che ha invaso le Fiandre. Una vera pulizia etnica operata ai danni della popolazione inerme. La rappresentazione pittorica diviene, al tempo stesso, una denuncia della perfidia delle autorità e una condanna dell’ipocrisia della religione. La stessa costruzione spaziale del dipinto (posta su di un asse visivo molto inclinato), obbliga lo spettatore a seguire la scena con partecipazione. Una discesa volontaria verso il baratro, un istinto di autodistruzione.
Bruegel fu pittore di corte di Carlo V, erudito, viaggiatore, frequentatore di artisti, letterati, alchimisti. Unico nel suo genere misterioso e a tratti enigmatico, tutte le sue opere si prestano a molteplici interpretazioni. A differenza degli italiani del Rinascimento, l’uomo per Bruegel non gode della fiducia datagli dalla filosofia, non si sente centro dell’Universo, anzi è sopraffatto dalla Natura e dal Caso, rimpicciolito nella sua impotenza e nell’indifferenza generale. Bruegel ci ha fatto un dono attraverso le sue opere, mostrandoci l’immagine delle conseguenze di una società priva di rotta, disumanizzata, schiacciata dalla caduta dei suoi simboli, che si affaccia sul baratro. Opere e concetti senza tempo se consideriamo le similitudini con il nostro quotidiano. Un uomo di colore viene ucciso, a mani nude, nel pieno centro di una cittadina di provincia. Nessuno interviene per fermare il pestaggio. Nei quattro minuti di agonia nessuno gli presta soccorso. Però gli astanti riprendono tutto con i telefonini. Sembra che l’istinto digitale allo scatto abbia prevalso sulla pietà umana, una banalità del male a cui stiamo abituandoci, davanti alla quale troppo spesso scrolliamo le spalle. Secondo Durkheim “La modernità non rappresenta la fine dei valori comuni, ma una loro trasformazione.” Verrebbe da chiedersi, con buona pace del padre della Sociologia, in cosa si sono trasformati questi valori, in cosa sono evoluti.
“Poiché il mondo è infido, mi vesto a lutto”, si legge sotto l’altra opera ospitata al Museo di Capodimonte, “Il misantropo”.