Napoli è una città infernale. Lo è sempre. In ogni stagione. Non è necessario ricorrere a chissà quale citazione di famosi o sconosciuti visitatori per rendersi conto di quanto l’area del Golfo sia un territorio straordinario. Il continuo lavorio delle forze della natura, un lavorio a volte velocemente catastrofico altre lento, in un intreccio tra continuità e discontinuità, ha prodotto un ambiente particolarissimo. L’incontro con il sublime è un’esperienza dei sensi che può manifestarsi in modo casuale e inaspettato, tra scorci panoramici, giochi di luce, intrecci di profumi e di suoni trasportati da brezze e venti che lo circondano, lo attraversano e che a volte paiono sgorgare dal suo centro.
A chi vive o a chi passa per le terre del Golfo, non appare meno forte la percezione della presenza umana, antica, forte, dirompente. L’insediamento umano sembra aver seguito il corso della natura con risultati contrastanti. Si è insinuato come un torrente dal corso dolce e continuo tra le colline e la costa. Altre volte ha assunto un carattere distruttivo come un terremoto o un’eruzione vulcanica.
In una ben poco simbolica sfida, l’urbanizzazione ha cercato di superare o quanto meno inglobare la forza e la bellezza delle manifestazioni della natura con un fare che non poteva alla lunga che rischiare di soppiantarla definitivamente. Metri e metri di stratificazioni, deviazioni di corsi d’acqua, bonifica di paludi, scavi di colline, riutilizzo delle opere dei predecessori, produzioni artistiche dalla qualità e dal gusto finissimo accostate a resti di un vivere misero, provvisorio, dal futuro incerto. L’urbanizzazione si è dispiegata a volte seguendo un ordine, un’idea progettuale quasi sempre sommersa, distrutta dal procedere casuale del costruire.
Civiltà che si autodistrugge e che si autorigenera di continuo. Una antropizzazione che nel suo divenire ha seguito un andamento ondulatorio con chiari segni di drammatica discontinuità. Una discontinuità che è percepibile nell’organizzazione urbana, nell’edificazione di chiese, conventi, residenze del potere, che sembrano essere state calate dall’alto. Edificazioni che portano il segno di un tentativo disperato di addomesticamento della natura e dell’umanità residente. Un tentativo che si è dispiegato su un territorio a volte molto limitato, immediatamente adiacente, altre volte mostra l’ambizione di un esercizio del potere che vorrebbe superare gli angusti spazi di un’insula, di un quartiere e raggiungere la città nel suo insieme. Tentativi per lo più falliti.
Un fallimento annunciato, forse previsto, tanto che ogni edificazione ha riservato ad un uso esclusivo uno spazio interno dove racchiudere frammenti di natura, dove rifugiarsi per sopportare lo scempio circostante. Piccole e grandi isole di pace, esclusive, private. Il chiostro di Santa Chiara, quello della Certosa di San Martino. Lo stesso avviene nei palazzi nobiliari, nelle fortezze, nei Castelli e poi nei Palazzi dei re. Il mare. Isole, penisole, estuari, paludi, utilizzati come materie prime, come enormi cave, trasformati, inglobati, in opere architettoniche. Così in ogni viale, strada, vicolo, largo o piazza è possibile definire un dentro e un fuori. Inferno e Paradiso, una promiscuità che tanto ha affascinato e continua ad affascinare turisti e visitatori e che rende la vita quasi sopportabile ai nativi.
Per fortuna alcuni di questi luoghi sono oggi accessibili e, quando si trova il tempo o la saggezza, in molti li attraversano per trovarvi rifugio, seppur temporaneo. Questo però avviene quando questi luoghi sono dimenticati o non vengono presi di mira da affaristi, da uomini di un potere pubblico avido alla perenne ricerca di acclamazione, anche con la speranza di lasciare un segno nel ciclo storico di Napoli o di uno dei tanti comuni che affollano le rive del Golfo. Come cani che marcano il territorio con la loro urina.
Il Castel dell’Ovo è uno di questi magnifici luoghi. Un promontorio, un isolotto in tufo trasformato in castello. A pochi metri dalla costa si erge potente nelle sue forme, caratterizza l’immagine dell’antica capitale non meno del Vesuvio, del profilo dell’isola di Capri e della collina di Posillipo. È in mare ma la città lo assedia. Per decenni il borgo marinaro nato intorno ai suoi bastioni è stato popolato da gente di mare e da tipi poco raccomandabile. Poi sono arrivati gli affaristi e su con la costruzione di nuovi alberghi, anche in epoca relativamente recente. Uno di questi scempi fu addirittura sostenuto dai figli di un presidente della Repubblica in carica ai tempi della sua edificazione, erano gli anni ’70 del secolo scorso.
Fino ad ora si è trattato di assedio, ora però si prospetta l’arrembaggio. Giganteschi rapaci hanno estratto gli artigli, lo hanno individuato come possibile prossimo lussurioso pasto. Un monumento di proprietà pubblica, per legge non alienabile, che con accordi sottoscritti negli anni tra il Demanio, il Ministero oggi della Cultura, la Regione, il Comune, è passato di mano, almeno nella sua gestione che altro non è stata che il garantire l’apertura e la chiusura del portone, il rilascio di qualche autorizzazione per l’utilizzo dei suoi spazi interni tra cui una moderna sala conferenze, sale per ricevimenti e convegni. Chi lo visita deve però portarsi scorte di acqua e caffè o di spiccioli perché l’unico servizio messo a disposizione sono delle macchinette automatiche e un ascensore. Ma a Napoli a volte è meglio così. Chi arriva fino all’ultima terrazza vive un’esperienza straordinaria. Si sta su un ponte di una nave gigantesca che arriva o lascia la città. Il mare sembra limpido e trasparente, la brezza è costante e la città, la sua confusione, i suoi assordanti rumori, i suoi miasmi maleodoranti scompaiono.
Ora però i rapaci lo voglio per sé. Lo vorrebbero destinare ad un uso esclusivo, anche se probabilmente più pubblico-istituzionale che privato, ma non si sa mai dove si andrà a finire. Così i napoletani, quelli semplici e pacifici, quelli che non escono di casa solo per aperitivi e dopo cena, o per raggiungere posti alla moda o per sedersi ad un tavolo a consumare cibo ormai di dubbia qualità su un tavolino appoggiato su marciapiedi sporchi e maleodoranti ma semplicemente per passeggiare, trovar ristoro nella mente, stanno per perdere una delle ultime oasi di pace acquisite gratuitamente al loro godimento per usucapione, per l’abbandono del latifondista istituzionale. Dicono che questa è la modernità, è l’uso giusto, produttivo, efficiente delle cose della Repubblica. È quello che bisognerebbe fare, dicono, con i fondi del PNRR. A noi appare uno scippo, l’ennesimo saccheggio che i napoletani dovranno subire. Napoli un paradiso abitato da diavoli? No, un girone dell’inferno governato da un’idra dalle molte teste.
Il rapace cerca forse l uovo che Virgilio nascose nelle sue fondamenta, se così fosse siamo tutti in pericolo….