E così se ne è andato anche Eugenio Scalfari. Era ora, potrebbe commentare qualcuno, e non perché la cosa non abbia addolorato profondamente ma perché tutti se lo attendevano da tempo. Il giorno dopo la dipartita “la Repubblica” gli ha dedicato quasi l’intero giornale, 36 pagine con oltre 20 interventi, gran parte dei quali non poteva che essere pronta già da un bel pezzo (parliamo di articoli di due pagine che non si scrivono in un giorno e una notte): enormi coccodrilli cresciuti col passare del tempo. Chissà quanti degli onesti e sinceramente affezionati estensori di questi encomi anticipatari si saranno chiesti se per caso non hanno tirato un po’ i piedi all’amico Eugenio.
Cosa si può aggiungere alla valanga di apprezzamenti, attestati di stima umana e professionale, santificazioni convinte provenienti da tante note personalità del giornalismo e della cultura? Da modesto lettore de “L’espresso”, incontrato nel 1964, e poi de “la Repubblica”, ruolo nel quale mia moglie mi ha seguito a qualche anno di distanza, credo di poter aggiungere un commento molto elementare: Scalfari sapeva distinguere le persone perbene da quelle che lo erano poco o per nulla. Fiutò da subito l’arroganza poi manifestata da Craxi e la mancanza di scrupoli di Berlusconi. Afferrò all’istante la portata umana e politica di Enrico Berlinguer ed apprezzò Ciriaco De Mita come il meglio che potesse esprimere la Democrazia Cristiana, un partito troppo radicato nel malcostume nazionale.
L’immediato afflato umano e filosofico con Papa Francesco, e non con quelli che lo avevano preceduto al soglio pontificio, la dice lunga sul sesto senso di Scalfari nel rintracciare ciò che vale la pena conoscere e frequentare. L’unico neo in questa sua attitudine rabdomantica è che ha impiegato un po’ di tempo per capire chi era Renzi. Ma, come suol dirsi, nessuno è perfetto.