Il bicentenario di Petito non celebrato e il sogno di una rinascita del teatro napoletano

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Ritratto di Antonio Petito

Sono tanti gli attori che hanno vestito la maschera di Pulcinella nei secoli. Da Michelangelo Fracanzani (nipote del pittore Salvator Rosa) a Filippo Cammarano (beniamino di Carlo III di Borbone). Ma il maggiore interprete fu Antonio Petito. A lui dobbiamo il maggiore corpus di opere pulcinellesche (anche se fu semianalfabeta). A Petito dobbiamo il nuovo e definitivo aspetto della maschera e della sua codificazione scenica.

Duecento anni orsono, il 22 giugno 1822, in vico Giardinetti a Toledo vide i natali Antonio Petito figlio di un altro celebre Pulcinella, Salvatore Petito, e di Giuseppina D’Errico, meglio conosciuta come Donna Peppa e gestrice del teatrino dei pupi alla Marina del Carmine, divenuto proverbiale per il pubblico eterogeneo e molto rumoroso che lo frequentava solitamente. Antonio era un piccolo genio ribelle soprannominato in famiglia Totonno ‘o pazzo per la sua estrema vitalità. Debuttò sul palcoscenico alla tenera età di sette anni. Racconta un biografo d’eccezione come Salvatore Di Giacomo che il piccolo Petito risultava essere tanto gradito al pubblico per la sua innata comicità, che il padre Salvatore gli trovava, gioco forza, una parte in ogni rappresentazione. Nel 1834, dodicenne e navigato istrione, Totonno recitò (si racconta controvoglia) per il re bomba (Ferdinando II) nel teatro di San Ferdinando. Tanto crebbe il suo successo nel tempo che il padre Salvatore lo investì del ruolo di capocomico a soli 21 anni. Memorabile fu, secondo Di Giacomo, quando il genitore gli cedette la maschera e il camice bianco di Pulcinella nel corso di una rappresentazione al Teatro San Carlino di Napoli.

Petito mise al servizio della maschera di Pulcinella tutta la sua estrosità. Il furbo contadino acerrano si trasformò in un popolano napoletano che, molto spesso, ambiva a darsi aria da borghese. Sparì il cuppulone bianco, sostituito da un liso cilindro, sul camicione bianco da scaricatore indossava una sgargiante marsina alla moda. Il personaggio fu totalmente reinventato, divenendo da comprimario vero protagonista della scena. Antonio Petito fece la fortuna delle sue opere fustigando i vizi di una borghesia retrograda, reazionaria e arrivista. Quella stessa borghesia che, insieme al popolo, andava ogni volta ad applaudirlo. Antonio morì come aveva vissuto: sul palco mentre recitava. Proprio dietro le quinte del teatro San Carlino, dove aveva ricevuto i panni di Pulcinella per la prima volta, Petito ebbe, la sera del 24 marzo 1876, l’attacco cardiaco che gli fu fatale.

Il ricordo di quei momenti nelle parole di Salvatore Di Giacomo: “Quale scena! L’infelice fu trasportato, dal corridoio, sul palcoscenico e qui adagiato sopra un materasso. Fra tanto un attore usciva ad annunziare agli spettatori la triste novella. Un silenzio profondo seguì alle poche proteste di coloro che non credevano ancora all’avvenimento […]. Erano attorno al Petito i suoi compagni […]. E fu uno scoppio di singhiozzi, di urli, d’apostrofi, un pieno di commozione, che pareva il finale di un dramma […]. La notizia si sparse per Napoli in un baleno. Spariva il benemerito dell’allegrezza, il riso moriva”.

Il riso non morì con Petito. Una stagione di grandi interpreti teatrali e autori stava per fiorire più rigogliosa sui lidi di Partenope. Un filone d’oro che non sembra essersi estinto con l’avvento del nuovo millennio: Annibale Ruccello, Antonio Capuano, Mario Martone, Paolo Sorrentino ecc. Quella che sembra essere defunta è la volontà di valorizzare questo patrimonio intellettuale.

Dei tanti teatri esistenti in città oggi pochi sono attivi. Chi ha assisto a qualche rappresentazione del Napoli Teatro Festival può confermare come i solipsistici allestimenti siano tutto tranne che per tutti. Attraverso la “sperimentazione a tutti i costi” il teatro ha perso la sua funzione popolare e catartica divenendo sinonimo di élite. Sarebbe forse stupido pensare che attraverso la cultura si possano rimpinguare le affaticate casse comunali? Come? A Broadway si può assistere ai musical Cats o West Side Story ogni giorno dell’anno tre volte al giorno, lo stesso succede a Londra con le opere di Shakespeare e ad Oslo con Ibsen: “Trappola per topi”, celebre commedia poliziesca di Agatha Christie è stata rappresentata al New Ambassadors Theater di Londra tutte le sere per oltre 60 anni! Il San Carlo potrebbe lavorare con il repertorio, quello più famoso, dell’opera buffa settecentesca, senza interruzioni, per decenni. Il Mercadante, il Politeama, il San Ferdinando (che appartengono al Comune di Napoli) potrebbero attingere alla sconfinata produzione di Petito, Scarpetta, Viviani, De Filippo. Spettacoli capaci di emozionare, far riflettere e divertire lo spettatore in un teatro che non sia auto-celebrativo, ermetico o fine a sé stesso ma prima di tutto magia e sogno.

Il mondo della cultura deve dismettere quell’atteggiamento snob ed essere davvero pop. Popolare, per tutti ed a prezzi ragionevoli. Un nuovo approccio, commerciale, un modo per ridare “Dignità” al lavoro dell’Attore e al contempo una provocazione sorprendente per riavvicinare il pubblico. Trasformare inanimati templi di una cultura morente in vivi centri di produzione dove rinverdire i fasti di quel periodo in cui le muse Melpone, Talia, Tersicore, Euterpe abitarono i nostri lidi. Ma questa resterà un’utopia come tante: colpa di chi ci governa ma soprattutto del napoletano medio, pronto ad indignarsi solo per uno sciocco billionaire che osa parlare male della pizza….

Diceva, amaramente, Viviani nella poesia “campanilismo”:

“T’avante ‘e vermicielle, ‘e ppummarole:

mmescace pure a nuie si ‘o mmeretammo.

Che vvuò ca, cu stu cielo e chistu sole,

te dammo nu saluto e ce ne jammo?”

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