E anche quest’anno ci siamo. Ci sono. Gli esami una volta detti di Maturità e poi diventati esami di Stato. Io questa metamorfosi non l’ho mai capita bene. Forse semplicemente lo Stato si è voluto sostituire alla maturità dei suoi cittadini studenti. Il che non stupirebbe, per la verità. Anzi. A chi si è convinto negli anni che la scuola sempre più, in nome della nefasta ideologia del possibile, ha generato legioni di irresponsabili sembra perfettamente logico. Di quale maturità vogliamo parlare? Ci pensa lo Stato. Non vorrei su azione proditoria di troppi genitori, che da tempo hanno rinunciato alle loro responsabilità, quanto meno a una precisa: quella di pretendere figli preparati e cazzuti nelle conoscenze. Il che implicherebbe non solo docenti appassionati e competenti, ma ugualmente studenti disposti al duro sacrificio di imparare e genitori presenti, non distratti, e, soprattutto, disposti a riconoscere che i loro figli non sono da premio Nobel; che la socializzazione dei loro pargoli va bene ma non a sistematico discapito dello studio; che la musica o lo sport sono importanti, nessuno lo nega, ma che lo studio e la responsabilità della conoscenza lo sono di più.
Vabbè, scusate, tempo perso. Temo. Anche perché, nei media e immagino nella mentalità di molti, e nelle convinzioni di troppi politici, chiamiamoli così – perché se uno dovesse definirli compiutamente per quelli che sono, dubito che il giornale che generosamente mi ospita, mi pubblicherebbe – mediamente i prof sono dei fannulloni prezzolati, dei fortunati a stipendio certo e posto inattaccabile. E sono quelli dai tre mesi di ferie all’anno. Questa dei tre mesi è una di quelle cazzate da volgo analfabeta e rancoroso che, francamente, non si sopporta. Almeno io non ne posso più, posto che sono a scuola per gli esami e siamo al venti giugno, e ne avremo per un bel po’. Per non dire della sequela di progetti che oramai tutti gli anni approviamo perché la scuola funzioni anche d’estate e che la verifica dei giudizi sospesi – gli esami di riparazione – sono di norma programmati per gli ultimi sette/otto giorni di agosto.
Ritorno agli esami. Di Stato.
Il primo grande problema da affrontare è quello del credito scolastico. Un vero incubo.
L’idea di fondo è questa: un ragazzo arriva all’esame con una storia, che, per vari motivi, è quella strettamente del triennio. All’esame, quindi, lui in qualche modo è foriero di un portfolio – è caduta in disuso questa parola ma è sempre esemplificativa – di ciò che sono stati il suo terzo, quarto e quinto anno. Ora si badi, questi crediti, il cui punteggio è ovviamente sommativo, concorrono al punteggio d’esame. Mi spiego, se un ragazzo prende cento – gioia e giubilo! – in quei cento punti vi sono i punti di credito dei tre anni finali. L’idea tutto sommato non è male, nel senso che pur andando, la scuola pubblica, nella direzione dell’analfabetizzazione consolidata e progressiva – prima, quando non c’erano i crediti, l’esame di maturità verteva su tutti e tre gli anni finali – in qualche misura questa storia dei crediti rende ragione di un percorso.
Naturalmente, sempre in Italia siamo, pertanto non vuoi che i crediti non scatenino un vaso di Pandora? Quello che succede con i crediti è da manicomio strutturale.
I crediti, recita la normativa, devono dipendere dalla media dei voti. È cosa buona e giusta e siamo tutti d’accordo, credo. Solo che con la media entri in una fascia di attribuzione la cui definizione è a totale carico della responsabilità dei consigli di classe e, prima ancora, del collegio dei docenti, in quanto detta fascia prevede la possibilità di un punto in più o un punto in meno. Per quel maledetto punto in più o in meno, di quella benedetta fascia di attribuzione, nella quale entri, voglio ripeterlo, con la media aritmetica dei voti, che comprende tutte le discipline, dall’educazione civica alla condotta (viene esclusa da questa media solo la valutazione nella religione cattolica o delle materie ad essa alternativa), per quel maledetto punto, vengono fuori i criteri e le motivazioni i più fantasiosi e le discussioni più feroci.
Se a un alunno, in virtù della media, possiamo dare, ad esempio, dieci o undici punti di credito, in base a quale criterio o motivazione diamo dieci ovvero undici? Cosa non succede! Persino il “riconteggio” della media. Alla luce di nuove e più serrate e certe e virtuose e complicate e giuste e lungimiranti motivazioni, si capisce.
Il computo dei crediti è l’angoscia, l’ansia, l’incertezza e il sommo timore dei dirigenti scolastici e dei presidenti di commissione. Si fanno conti e riunioni ad hoc, anche ripetute e riviste, perché il calcolo dei crediti sia quello giusto in funzione dei meditati criteri o delle approfondite motivazioni ma prima ancora della giusta tabella, che, manco a dirlo, non è univoca né determinata e certa nei suoi valori numerici complessivi. Già. Oltre all’angoscia del “punto ballerino” non c’è certezza su quale sia la tabella giusta e, quindi, quale sia il punteggio corretto da sommare e valutare.
Sembra quasi che al Ministero non facciano altro che attentare alle coronarie dei dirigenti e dei loro collaboratori che, come in un esercito iconico e scalcagnato, scaricano sui sottoposti, sui docenti, prima di tutto sui coordinatori di classe, un conteggio la cui somma una volta fa quaranta poi sessanta, quest’anno cinquanta.
E siccome dalle parti di viale Trastevere quali scolte armate di regolo calcolatore non stanno mai quieti – sarebbe decisamente il caso! – ci propinano, sospetto con leggiadra crudeltà, appropriate tabelle di conversione per passare da quaranta a cinquanta o da sessanta a cinquanta o da quaranta a sessanta, o viceversa. Non mi dite niente.
Tabelle che vanno applicate con tempistica ancora più appropriata. Se sbagli i tempi, è la fine.
Il fatto è che pure se stai attento come una guardia svizzera alle prese con le tentazioni, qualcosa sempre può andare storto. Perché, non ci crederete, e fate male, il sistema informatico è più conservatore di quanto pensiate. Per cui aggiorna secondo tempi e modalità che i super eroi dal regolo incontinente non sanno né intendono sapere.
Difatti, dopo avere per sette volte sette, e oltre, controllato che le somme e le conversioni fossero quelle giuste e dalla coerente temporizzazione – oltre naturalmente alla verifica della corretta applicazione dei canoni “del punto in più o in meno” – non ti trovi che il famoso portale, che ha sostituito il cartaceo, ti dà numeri e somme che non coincidono con quelle calcolate e ricalcolate con certosina perizia e accelerato battito?
Due di loro, dei miei alunni, non erano come noi avevamo “contato” che fossero.
Panico e nervi saldi mescolati in una melassa indefinita e sudata, posto il caldo delle quattro del pomeriggio, associati, in un consorzio solidale, a una consolidata esperienza sul campo, ci hanno permesso di correggere quel dispettoso portale. E riportarlo a giusta ragione, in tempi ragionevoli. Non senza affanno e, devo confessare, con un’inarrestabile punta di ostilità. Verso l’informatica a sistema e i regoli compulsivi.
Naturalmente, che ve lo dico a fare? Quale la prima preoccupazione del primo giorno, alla seduta plenaria per dare corso agli esami di Stato, del nominato presidente di commissione esterno? Il controllo dei crediti.
‘Nata vota? Sì. Un’altra volta. Perché la fulgida aspirazione, e confessata preoccupazione, di tutti i presidenti di commissione è evitare ricorsi. Costi quel che costi. E poiché la libertà di insegnamento, o quello che ne rimane, tuttora è difesa più o meno saldamente dalla carta costituzionale, ti puoi beccare un ricorso sui numeri, sulle somme e sulle conversioni.
Avete ancora il coraggio di dire che essere prof non è un mestiere usurante?
Alla prossima.