In una chiara giornata di sole, sfrecciando in macchina sul raccordo autostradale in uscita a San Giorgio a Cremano, oppure percorrendo “l’idilliaco” sottopasso che fa da tetto alle baracche del campo Rom, nessuno potrebbe immaginare che in quel posto sorgeva una delle più belle ville rustiche settecentesche partenopee. Un piccolo castello con masserie e locali di servizio, cavalli che pascolavano liberi nel podere, vigneti a perdita d’occhio, piantati a mezza costa tra il mare ed il Vesuvio. A pochi passi da lì un placido ruscello che scorreva nella piana costellata da rovine romane, alimentando mulini e irrigando le colture dei fiori di garofano, della pregiata qualità detta “schiavona” per l’intenso colore rosso che ricordava le labbra delle donne d’outre mer. Il torrente proseguiva la sua corsa verso il mare attraversando il vicino Casale della Barra, una volta chiamato Trisana (tre volte salubre). Tutta la tenuta invece era costeggiata da piante secolari di pini marittimi che le davano il nome: Le Pigne.
Il proprietario di tanta bellezza, oltre che progettista e architetto, altri non era che il grandissimo pittore Francesco Solimena (Canale di Serino 1657 – Barra 1747). Come mai il ritrattista di Filippo V, uno dei più famosi artisti del suo tempo, scelse questo specifico posto per risiedere e lavorare? La risposta potrebbe ricercarsi nel suo amore per lo stile letterario detto “Arcadia”.
Per meglio comprendere è necessario un breve excursus della sua vita. Nato in un piccolo paese vicino ad Avellino (Casale di Serino, dove il padre Angelo si era rifugiato per scampare alla peste del 1656), Francesco manifestò un’immediata inclinazione per il disegno. La sua formazione artistica avvenne nella bottega del padre, esponente di rilievo del naturalismo napoletano. Si accostò poi alla pittura scenografica e luminosa di Luca Giordano da cui apprese il senso monumentale della composizione, la concretezza naturalistica delle immagini e la chiarezza dello spazio compositivo.
Il principale biografo di Francesco Solimena, Bernardo De Dominici, racconta come il giovane Solimena, insofferente a qualsiasi disciplina accademica o di bottega, soleva ispirarsi solo ai grandi modelli suoi predecessori, Mattia Preti in particolare. Abate Ciccio fu il soprannome di Francesco Solimena, chiamato così in quanto fu realmente un terziario dell’Ordine monastico domenicano. “Vestendo in sin da giovine l’abito clericale”, De Dominici ci narra che fu per Solimena “gioco forza la tonsura per poter operare nei conventi di clausura con titolo di precedenza nei confronti di altri pittori secolari”. Artificio consigliatogli dal suo amico, il cardinale Innico Caracciolo, per sbaragliare la concorrenza.
Fin dalle prime prove pittoriche Francesco si fece interprete di un linguaggio in cui la materia pittorica si riassumeva in un colore vivo ed energico, in ombre e luci che rendevano le immagini preziose e brillanti. Il vero indirizzo stilistico del pittore campano si delineò tra gli anni Novanta del Seicento e l’inizio del nuovo secolo, attraverso la definizione di una “maniera chiarissima e leggiadra”.
La maestosa enfasi compositiva, insieme alla dilatazione dello spazio dovuta alla scelta di una tavolozza chiara ed elegante e il riempimento di esso con una folla di figure che rendono le scene raffinate e dinamiche faranno di Solimena il maestro del tardo Classicismo, vero precursore dello stile Rococò. Nonostante questa tendenza non fosse in accordo con i gusti dell’epoca, il pittore ottenne comunque un formidabile successo. Successo e fortuna economica che fecero dell’abate Ciccio uno degli uomini più ricchi della città. In questi anni acquistò un intero palazzo sulla Collina della Costagliola (attuale via Salvatore Tommasi). La fabbrica preesistente venne totalmente stravolta dal progetto dello stesso pittore coadiuvato dai suoi alunni Domenico Antonio Vaccaro e Ferdinando Sanfelice L’interno fu impostato attorno al cortile su volte a vela. Sullo sfondo del cortile le scuderie; sulla destra la scala che conduce ai piani successivi. Scala a pianta ottagonale simile a quelle di Palazzo di Majo e Palazzo Palmarice, entrambe opera di Ferdinando Sanfelice. L’imponente dimora nella capitale napoletana fu per Solimena il simbolo tangibile della fama conquistata, da ostentare insieme al titolo di Marchese d’Altavilla, acquistato per 72.000 scudi sul mercato araldico dei nobili blasonati e squattrinati.
La scelta del sito di Barra invece nasceva dal desiderio più intimo di vivere proprio nei luoghi dell’“Arcadia” sannazariana. Infatti Solimena fu anche dotato letterato appartenente alla Colonia Sebetia dell’Accademia letteraria nata a Roma nel 1690. Volendo vivere quell’ideale di raccoglimento nel seno di una bucolica e composta bellezza, fece erigere il casale sperando di coronare il sogno di “una esistenza felice tra i pastori”.
Purtroppo oggi, recandosi sul posto dove insisteva la proprietà, si identifica a malapena tra i rifiuti, un desolato casale. Il toponimo viario “Via pini di Solimena” sembra più un insulto che l’omaggio alla memoria del grande artista partenopeo.
L’ultima, ed eterna, dimora di Solimena si trova, sempre a Barra, in corso Sirena, nella chiesa di Santa Maria della Sanità dei padri domenicani. La stessa chiesa che amava frequentare e per cui disegnò (finanziandone anche la costruzione) la facciata e la cupola. Nel 1747, all’età di 89 anni, Solimena si spense e fu inumato in una cappella alle spalle dell’altare maggiore. In conseguenza della grande fama del pittore (che non accenna ad offuscarsi col trascorrere del tempo), le sue opere sono oggi conservate nei più prestigiosi musei e in collezioni private di tutto il mondo. Nonostante nella sua lunga vita si prodigasse per i poveri e i bisognosi, arrivando a trasformare il suo atelier in una vera e propria accademia di pittura per i ragazzi indigenti, la sua tomba fu rimossa nel corso dei secoli.
Nell’ipogeo della chiesa domenicana oggi solo una cassetta rimane ad ospitare parte del suo cranio e i resti di una incipriata parrucca, memento mori per ricordare la fugacità della vita e dei suoi piaceri, nonché l’ineluttabilità della morte.