Da quando Putin con il suo esercito ha iniziato ad invadere l’Ucraina seminando distruzione e morte, anche noi abitanti della Penisola, immersi nel tepore del Mediterraneo, per acquietare le coscienze e nel tentativo di tener lontano il più possibile lo spettro della guerra guerreggiata, ci stiamo auto-bombardando, fortunatamente di sola carta e parole, con commenti, riflessioni, analisi e prese di posizione più o meno chiare, più o meno nette.
Bambini con lo sguardo perso nel vuoto, donne in lacrime, anziani ridotti a fagotti ingombranti trasportati da un rifugio ad un altro, se da un lato scuotono le coscienze dall’altro rischiano di ottenere il risultato opposto, rendendo l’orrore una consuetudine, qualcosa cui alla lunga ci si può abituare.
Noi del mondo del benessere, lontano dal fragore delle bombe, non abbiamo il diritto di far leva sulle sofferenze di gente bombardata o sulla sofferenza delle famiglie dei soldati mandati a morire senza sapere neanche perché, come pare stia accadendo ai soldati russi, per dar sfogo alle nostre più o meno grandi frustrazioni, alla nostra presunta superiorità civile e culturale e giocare a far la guerra per procura. A noi è richiesto un altro impegno: quello di far tacere subito le armi, di fermare il massacro per poi lasciare alla diplomazia il compito di trovare soluzioni più o meno di lungo periodo perché la carneficina non ricominci dopo qualche settimana, qualche mese, qualche anno. Per ora le nostre sono parole, ma parole che pesano e molto. Bene scrive Davide Orecchio nell’articolo La salvezza non viene dalla Storia, pubblicato su nazioneindiana.com: “Putin, calpestando ogni principio di civiltà, diritto e buon senso, ha aggredito l’Ucraina. I soldati muoiono, i civili muoiono, muoiono i bambini sotto i mortai. E intanto, le parole che scandiscono azioni e interpretazioni emergono da un lessico troppo inquietante. Pare che molti vogliano rivivere il peggiore dei mondi di ieri, o che siano talmente spaventati dal suo ritorno da, senza accorgersi, già aprirgli le porte: con le parole. (…) L’uso delle parole, l’uso della storia… Lo so che può apparire un tema irrilevante dinanzi ai massacri quotidiani, alla carneficina da Mariupol a Kiev, e se così vi sembra vi chiedo scusa, e chiedo perdono a chi sta soffrendo. Eppure non riesco a togliermi dalla testa che, se dici “Hitler”, un giorno avrai Hitler, e se dici “guerra mondiale”, un giorno l’avrai.”
Se ciò è vero, quanto scrive anche su queste pagine Jorge nel suo articolo Contrastare l’impero minerario non solo non ci convince, ma riteniamo che il suo ragionamento, se portato alle estreme conseguenze, non può che farci rotolare nel baratro profondo del conflitto armato in atto. Nel suo discorso non troviamo traccia di una qualsiasi ipotesi per la pacificazione, anzi ci pare che individui vecchi/nuovi nemici, prospetti alleanze raggiungibili solo con l’uso della forza, con l’estensione territoriale del conflitto in atto.
Su una cosa Jorge ha profondamente ragione anche se, ottimisticamente, ne limita gli effetti ad una sola parte degli schieramenti in campo: i pezzi residuali della sinistra italiana; la senilità dominante, l’occupazione fisica dei luoghi dove si esercita il potere politico da parte di uomini e donne (pochissime a dire il vero) nati nella prima metà del secolo scorso o poco più avanti, tengono prigioniero il mondo intero rendendo i sistemi politici, la struttura delle relazioni internazionali, bloccati in una visione delle cose che non combacia più con la realtà, con lo sviluppo delle società contemporanee. Biden (classe 1942), Putin (1952), Xi Jinping (1953), per non parlare poi degli italiani con il Presidente Mattarella, classe 1941, Mario Draghi 1947, Berlusconi 1936. In Italia abbiamo subìto il farneticare di Berlusconi che vedeva i comunisti numerosi come formiche, infiltrati in tutti i gangli del potere italiano in un periodo nel quale era impossibile trovarne qualcuno pur pagandolo a peso d’oro. Dall’altro capo dell’Atlantico Trump non è stato da meno spingendosi a ipotizzare che il Covid-19 non fosse altro che una miniaturizzazione del nemico comunista cinese. Altro che senilità degli esponenti della sinistra italiana, ci troviamo in un mondo di vecchi che ragionano come ai tempi della loro gioventù.
Spiace dirlo, ma anche il nostro amico Jorge pare ragionare con vecchi schemi. Il concetto di Impero minerario ci pare ricavato da un pamphlet dei socialisti ottocenteschi. Oggi il potere globale lo hanno aziende che posseggono conoscenze e tecnologie e solo in modo derivato gli stati ai quali fanno principalmente riferimento, anche se il loro carattere multi nazionale è ormai dominante. Ciò che da tempo spaventa gli Stati Uniti non è certo il deterrente militare o il possesso di fonti minerarie della Cina, ma il fatto che, trattandosi di un sistema in cui le imprese sono direttamente controllate dallo stato, queste si sono negli ultimi decenni trasformate da botteghe di esperti copisti dei prodotti occidentali in sistemi in grado di mettere a punto tecnologie e prodotti con tecnologie proprie e direttamente in concorrenza con i sistemi americani ed occidentali. Si pensi a tutta la vicenda della Huawei e al veto statunitense al fatto che i paesi europei adottassero la tecnologia 5G. È nota la sete di rame e di metalli preziosi della Cina che, pur di accaparrarseli, gioca nell’ombra, stringendo alleanze con i più disparati gruppi di potere disseminati nei cinque continenti ma non per questo arretra sui mercati internazionali.
Ma torniamo alla pace e alla guerra.
I paesi dell’Unione Europea, almeno il gruppo originario e storicamente dalla parte occidentale, di cui l’Italia fa orgogliosamente parte, hanno vissuto un lungo periodo di pace, una dimensione del tutto anomala se osservata in una prospettiva storica. Le condizioni della pace sono state determinate dalla concomitanza di alcuni fattori, geopolitici, geografici, economici e tecnologici. L’essere la terra di mezzo tra due blocchi contrapposti, quello atlantico e quello sovietico, se da un lato ha determinato una condizione di autonomia limitata nella possibilità dei singoli paesi di compiere scelte politiche interne (in Italia la conventio ad excludendum prima di tutti i partiti della sinistra, Partito Socialista compreso, e poi solo nei confronti del Partito comunista) e nelle alleanze politiche ed economico-commerciali con altri paesi non direttamente parte dell’area di influenza atlantica, ha permesso a questi stessi stati di accumulare grandi ricchezze, di riuscire a sperimentare ed applicare sistemi di redistribuzione del reddito (il welfare state), lo sviluppo di un sistema di tutela dei diritti individuali che non ha pari in nessuna altra area del mondo. Sono questi elementi ormai acquisiti nell’opinione pubblica, nelle parti sociali, nei partiti e gruppi politici tanto che confronti e scontri, dopo anni di sanguinosa turbolenza segnata dal susseguirsi di stragi e assassinii, tentativi di colpi di stato, hanno trovato un nuovo assestamento nel pieno rispetto delle dinamiche istituzionali proprie delle democrazie parlamentari.
L’apogeo di questo processo si è raggiunto quando la contrapposizione in blocchi del mondo, che prima che economico-sociale era ideologico-politico, si è dissolta in quell’evento simbolo di una svolta storica che è stata la caduta del muro di Berlino nel 1989. A parte qualche resistenza residuale, il conflitto ideologico è svanito facendo largo ad un realismo economico. I processi di globalizzazione delle economie hanno fatto il resto. Le leggi del mercato hanno soppiantato, utilizzando sicuramente un linguaggio antiquato, il soggettivismo politico. Nessun cambiamento radicale, nessun cambio di sistema, nessuna rivoluzione possibile, al massimo qualche aggiustamento redistributivo del reddito.
I costi richiesti alle persone sono stati notevoli a partire da chi vive del proprio lavoro. La precarizzazione dei rapporti di lavoro dipendente, la diffusione di una flessibilità salariale e professionale sono state raggiunte in una sostanziale condizione di pace sociale facendo leva sul consenso politico elettorale, indispensabile nel governo delle democrazie, alimentato dall’aumento della ricchezza disponibile e su quella illusione consumistica, l’ampliamento della disponibilità di beni di consumo. Un consenso forzato dall’uso indiscriminato del ricatto della delocalizzazione produttiva di attività industriali in paesi in cui il costo del lavoro era notevolmente più basso che nei paesi della vecchia Europa comunitaria, anche perché privo di quei costi aggiuntivi della previdenza e dell’assistenza sociale.
Poi è arrivato Putin, la sua guerra di espansione in Ucraina, la morte, la distruzione e l’aumento vertiginoso e generalizzato delle spese militari ed è ritornato l’incubo della possibilità di una guerra nucleare. Una politica di potenza ad imitazione di quanto gli Stati Uniti hanno tentato in Iraq, Iran, Medioriente, Africa del Nord e che da sempre praticano in Sud America.
Il dramma per tutti è che la Politica, invocata da alcuni come strumento per la regolazione delle storture determinate da un mercato economico finanziario senza regole, ha finora taciuto, si è fatta da parte per decenni e tra enormi diseguaglianze, il mondo ha trovato il modo di sopravvivere in una quasi pace. Oggi ritorna in auge, rivendica un suo ruolo e le conseguenze si stanno pagando anche in Europa, in Ucraina, con tante vittime, tanta sofferenza e disperazione, con la distruzione di città e infrastrutture le cui conseguenze le pagheremo tutti per molto tempo visto che è ricominciata la corsa agli armamenti, alle spese militari. In Italia si son tagliate le pensioni, si sono ridotti i salari, le spese sanitarie e per la scuola, si è urlato contro il reddito di cittadinanza e poi, all’unanimità, il Parlamento ha approvato l’amento delle spese militari.
Caro Jorge, questa è la vera vittoria della Politica, la vera vittoria di Putin e di chi ad ovest vorrebbe imitarlo. In altro articolo abbiamo citato gli economisti della scuola classica e lo stesso Marx. Oggi siamo molto indietro rispetto al loro pensiero, quello che, oggi vien da dire, nonostante la Politica ha portato in pochi decenni la popolazione mondiale a raddoppiare, all’allungamento della vita media di uomini e donne, alla diminuzione della mortalità infantile e tanto altro ancora. Ha determinato anche la trasformazione dell’ecosistema ed è ormai opinione consolidata che siamo vicini al punto di non ritorno per scongiurare la fine della specie umana sul pianeta. Si stava iniziando a predisporre un percorso che invertisse questo trend ma poi è arrivata la Politica, Putin ha messo in moto la sua macchina da guerra e stiamo facendo giganteschi passi indietro.
Di questo dovremmo preoccuparci e non di strategie militari per riconquistate territori perduti da questo o da quel paese. Ma fin quando tuonano le armi ogni razionalità si spegne. Occupiamoci di come fermare ora e subito la guerra.
Caro Peppe, a me la situazione appare di una semplicità, crudele direi. Per la pace qui e ora, basta, diciamo, che diamo a Putin quello che vuole. Almeno per il momento, poi non ti saprei dire: ci sta pure una minoranza russa in Moldavia e non vuoi che non ci sia qualche nazionalista moldavo? Vuole l’Ucraina, che non ritiene un paese sovrano né libero né indipendente, anche perché, a sentire lui, tutto il casino lo ha combinato il compagno Lenin, che ha “creato” questa cazzo di Ucraina. Per cui Putin si è presa pure la responsabilità di correggere Vladimir Ilicic, che vuoi più dalla vita? Il fatto che gli ucraini non vogliano a lui, è secondario. Per Vladimiro Putin. E a mio modo di vedere anche per molti occidentali, meglio per molti italiani. Difatti, dalle nostre parti, si sentono, per sensibilità democratica (?) o per becero populismo, incessanti canti di pace che sostanzialmente dicono che gli ucraini non tengono diritto a nessun aiuto, di nessuna natura, meno che mai alle armi. E che sono ‘ste scemità? Armi, non sia mai! Quelli non si arrendono e continua il massacro. Siamo persone gentili noi, ci teniamo alla pelle del popolo ucraino, mica siamo pacifisti vuoto a perdere? Meglio che li massacri disarmati? Non credo, ma forse è più chic. Non saprei. Ho sentito dire anche che gli ucraini debbano fare come gli indiani di America, in fondo Cavallo Pazzo o chi per lui si è arreso. Una “riserva indiana” è preferibile alla morte. Ha detto costui. Sarà. Solo che al momento quelli che vivono nelle terre ucraine non ne vogliono sapere. Forse hanno diritto di decidere come morire, non credi? Sembra proprio di no, non lo hanno questo diritto. Secondo me sì. Decisamente sì. Ma non sono un pacifista, perdona. Allora, è tutto chiaro: lasciamo gli ucraini e l’Ucraina al loro destino e ai bandoleros ceceni, e la pace sarà fatta. Subito e di per sé. Questa è. Oddio, si può tentare di convincere Vladimiro che in fondo Donbas e Odessa e Crimea sono un buon risultato e che la neutralità dell’Ucraina non significa ammazzare Zelensky, che poveraccio lo hanno pure eletto. Ma non credo basterà. O forse sì, non lo so. E quindi? Niente. La gente muore e scappa di casa perché un signore, vabbè ci siamo capiti, ha deciso che la sua Federazione o è un Impero o non è. La Nato non c’entra un cazzo. Altrimenti sono a rischio Lettonia, Estonia, Polonia, Lituania, Svezia… e questo la dice lunga sul paragone con i missili a Cuba. Dopo Cuba c’era solo tanta tanta tanta acqua. L’oceano Atlantico. Non voglio tediarti ulteriormente. Sono un ragazzo, venia e considerazione, dal pensiero semplice e di fronte a un aggredito e a un aggressore non ho problemi a schierarmi. Senza se e senza ma. Quando la gente muore o viene violentata o scappa non ci sono molte parole, caro Peppe. L’Ucraina e gli ucraini hanno il sacrosanto diritto di difendersi. Anche con le armi che l’occidente, e l’Italia, fornisce loro. Perderanno e sarà un massacro ancora maggiore e ci sarà una crisi umanitaria senza precedenti e rischiamo di fare tutti un botto con l’atomica? Non so cosa rispondere. Forse hai ragione. Posso però ricordarti che, da quelle parti, quelli prima di Putin, sono morti in venti milioni. Non avevano altra scelta. Che combattere.
Caro Giuseppe Capuano,
avevo pensato di scrivere a te e ad altri amici che mi rimproverano di essere diventato bellicista, per chiarire il mio pensiero. Scopro però che non ce ne è tanto bisogno. Oggi su “Repubblica” trovate un articolo di Tahar Ben Jalloud che spiega molto bene quel che penso anch’io. Leggetelo: è molto chiaro.
Mi rimane dunque solo qualche chiosa da fare, si può fare in breve. Le enumero:
(1) Mi scrivi che la categoria di “impero minerario” è un residuo ottocentesco. Se intendi dire che proprio nell’Ottocento – attraverso Marx ma anche attraverso una pletora di altri autori – è nata l’idea di analizzare le azioni degli attori politici in termini di interessi economici e dunque di correlare la strategia di un paese al modo in cui fa parte dell’economia mondiale, è una parte dell’eredità ottocentesca in cui mi riconosco pienamente. Stranamente, i nostri amici in genere usano questo metodo quando parlano degli Americani, ma non quando parlano degli altri attori politici. Rilevo che la mia categoria ottocentesca mi permette di differenziare Putin e la Cina, mentre invece tu li getti tutti in un solo calderone. Io credo che ci siano molti pericoli anche nella svolta ultra-autoritaria cinese, varata dalla repressione a Hong Kong, ma che i due attori debbano essere considerati diversamente.
(2) Bisogna fermare la guerra, tu dici. Ma la guerra – se la intendiamo come guerra per il controllo delle risorse del pianeta – è già in corso da tempo. Quando papa Francesco denunciava la “terza guerra mondiale a pezzi” non pensava all’Ucraina, ma all’Oriente. Per certi versi, il fenomeno Putin è un fenomeno di reimportazione in Occidente di metodi che tutti (occidentali e amici degli occidentali compresi) hanno usato nelle aree minerariamente interessanti del pianeta. Così come il fascismo è stato in fondo la reimportazione dei metodi che i colonialisti europei usavano contro le popolazioni asiatiche e africane sul terreno dei conflitti sociali in Europa, così il putinismo è la reimportazione in Occidente di quei metodi che già da anni stanno riempiendo l’Occidente di migranti: devastare ovvero ripulire dai suoi abitanti un territorio, renderlo preda eterna di milizie mercenarie, pagare questi mercenari quel tanto che basta per garantire la tranquillità delle aree che interessano. La guerra non si fermerà finché non inizieremo a contrastare questo metodo di accumulazione originaria in grande stile.
(3) E qui vi è un discorso difficile da fare. Perché le due linee di politica internazionale su cui si divide la sinistra europea sono entrambe sbagliate. Una consiste semplicemente nell’adesione all’ideologia americana dell’interventismo contro i cosiddetti “Stati canaglia”. In effetti, questa politica ha portato a distruggere dei veri Stati (quello di Saddam era uno Stato vero, anche se orrendo e dispotico) per favorire la devastazione: l’ideologia americana serve a creare più “Stati canaglia” di quanti non ne distrugga. L’altra è l’ideologia tutta europea del “fare trattati di pace dovunque e con chiunque”, perché il nemico non va giudicato ideologicamente, perché la pace si fa con il nemico, perché le relazioni tra gli Stati sono indifferenti al modo in cui il nemico tratta la sua popolazione etc. etc. Tutti buoni argomenti, in parte – nel loro approccio anti-ideologico – li condivido. Sono contro la demonizzazione di coloro che sostengono questa linea. Nondimeno, questa linea mi appare debole e autocontraddittoria. Perché allora non facciamo la pace con l’Egitto, nonostante Regeni? Perché non siamo entusiasti che i talebani abbiano preso il potere in Afghanistan? In effetti, poiché il mondo è diventato uno, il fatto che uno Stato sia uno Stato di tagliagole e che terrorizzi il suo popolo non è più un fatto “privato” di quello Stato. Lo paghiamo tutti in termini di instabilità, di incremento dei flussi migratori, di impossibilità di fare politiche ecologiche e così via. Il mondo uno non può essere governato con la logica del jus publicum europaeum dell’Ottocento. Dobbiamo impicciarci un poco anche di ciò che accade sul territorio degli attori politici con cui facciamo le paci, se no la pace si ritorce contro di noi.
(4) Forse dovevamo impicciarci un poco anche dell’Ucraina prima che Putin la invadesse, perché è indubbio che l’Ucraina sia una nazione autonoma e debba esserlo, ma è indubbio che anche essa ha minoranze interne. Intervenire a favore di un sistema di autonomie prima che avvenissero i fatti di oggi avrebbe tolto a Putin un pretesto. Ma chi avrebbe dovuto farlo? Purtroppo, dire “l’Europa” è dire poco perché l’Europa è un insieme fragile tenuto insieme da discorsi giuridici e non politici. Ma certo non saprei dire chi altro avrebbe potuto farlo. Lo ha notato anche Chomsky, ultranovantenne ma combattivo, in una recente intervista: se l’Europa avesse avuto una strategia politica (e militare) sua, forse si sarebbe potuto fermare l’escalation.
(5) E qui torno al punto della deterrenza. Perché è vero che bisogna riportare al tavolo delle trattative tutti gli attori del conflitto, compreso anche Putin. Ma la mia idea è che se non contrasti il suo Impero mediterraneo in costruzione, Putin non lo impaurisci veramente. E chi lo dovrebbe contrastare dal momento che gli USA, come rileva Tahar ben Jalloud, almeno in quell’area non hanno alcun interesse a farlo? L’idea di un interventismo europeo sembra una stranezza. Ma io lo preferirei ancora al rilancio in grande stile della Nato che è il più probabile esito di questa guerra.
Cari saluti
Jorge