Riceviamo da Stefano Martella e volentieri pubblichiamo
Il 26 dicembre 2021 ci ha lasciati Desmond Tutu, un arcivescovo anglicano noto nel mondo come attivista ed oppositore dell’apartheid, che fu anche premio Nobel per la pace nel 1984. Sue le parole sopra riportate, che non si possono certo equivocare: in presenza di evidenti e gravi situazioni di ingiustizia la neutralità non esiste, se non come posizione che favorisce il male, e le grandi dichiarazioni di principio di cui spesso ci si riempie la bocca non possono sostituire il concreto intervento volto a cambiare le cose e a ripristinare quella giustizia violata, anche se per farlo la strada non è sempre facile e lineare come vorremmo.
Sulla scia delle parole di Tutu, incontriamo un altro importante personaggio che, tramite una ricca produzione letteraria, una profonda elaborazione teologica e soprattutto con il suo coerente esempio di vita, ha saputo ben spiegare come un atteggiamento neutrale, distaccato, non poteva essere possibile davanti all’insorgere e al dilagare del male nel suo tempo. Partiamo con una metafora.
Immaginate di trovarvi lungo uno stradone con tanta gente che cammina, un luogo molto affollato, tipo un lungomare dove si riversa la gente nei giorni di festa, nei weekend o nelle occasioni speciali. A un certo punto, da lontano, si vedono due luci avvicinarsi velocemente. È un folle, un pazzo che sta guidando a grande velocità, il cui scopo è passare su questa strada pedonale e mettere sotto più persone possibili. È un esempio ma mica tanto, se pensate agli atti terroristici accaduti e ancora freschi nella nostra memoria, basti pensare alla strage di Nizza del 14 luglio 2016, a quella di Berlino del 19 dicembre 2016 e a quella di Barcellona del 17 agosto 2017 con un furgone a velocità folle sulla Rambla. Ma molto prima che tutto ciò si verificasse nei nostri tempi, diversi decenni fa, qualcuno aveva già immaginato e utilizzato la figura di un folle omicida alla guida del suo mezzo. Qual è il comportamento più adeguato, più cristiano se siamo credenti ma in ogni caso più opportuno, efficace, davanti a una scena omicida del genere? Io ho pensato a tre possibilità:
- stare semplicemente a guardare, non impicciarsi, non sono fatti nostri. Non sporcarsi le mani con gente che non conosciamo, per non parlare del tempo perso, della polizia, dell’ansia e delle seccature che ci procurerebbe un nostro intervento. Meglio restare a guardare, che colpa abbiamo noi? Restiamo puliti.
- Il secondo atteggiamento è quello di soccorrere i feriti. Tocca sporcarsi un po’ con la polvere e col sangue, bisogna chinarsi, c’è il caos intorno, qualche aiuto si riesce a dare, ma c’è un problema: per ogni ferito soccorso ce ne sono dieci che quel pazzo che sta correndo a tutta birra su quella strada pedonale sta continuando ad uccidere.
- E poi la terza scelta, quella più difficile: fermare il pazzo, tentando di salire su quell’auto, magari uccidendolo se possibile ma salvando così tanti innocenti. Col rischio però che lui uccida te, perché se cerchi di fermare un pazzo probabilmente armato, lui può anche ucciderti. Mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri, o uccidere rendendosi colpevole di omicidio sebbene si tratti di fermare un pazzo e salvare altre vite innocenti?
Quali di queste tre scelte, secondo voi, è quella migliore, preferibile, oserei dire “etica”? Ragionare in astratto è sempre difficile, il gioco del “cosa faresti se” può essere interessante tra amici, comodamente seduti sul divano di casa, ma poi nelle situazioni bisogna trovarcisi, e io non auguro a nessuno di vivere esperienze drammatiche come queste. Ma qualcosa va detto, perché la vita è imprevedibile e capita di trovarsi in situazioni che non ci siamo scelti, e perché è giusto riflettere anche sulle cose che non ci coinvolgono in maniera diretta e mettere in campo ciò che pensiamo e crediamo. È importante anche parlare di temi seri e non solo dell’ultima puntata del Grande Fratello Vip.
Come dicevo l’esempio appena fatto non è mio, è stato formulato decenni fa da un personaggio la cui storia e il cui pensiero mi hanno profondamente colpito, un pastore luterano, amato e stimato sia da cattolici che da protestanti, conosciuto come “il teologo martire”, ucciso per mano dei nazisti mentre era incarcerato: Dietrich Bonhoeffer. Ma perché fece questo esempio? Tutto partì da una domanda che gli posero i suoi studenti. Essi gli chiesero il motivo per cui, lui che era notoriamente un pacifista (erano i suoi anni giovanili, progettava di andare in India per conoscere Gandhi), partecipava alla Resistenza e sosteneva il complotto per la l’uccisione di Hitler. E lui rispose proprio con la metafora del folle sulla macchina, dove ovviamente il folle nella metafora era Hitler. Non basta soccorrere le vittime se non fermi il conducente che sta continuando a farne delle altre. Chi è cristiano potrebbe tirare in ballo il noto comando del “Non uccidere”, che un pastore di anime non dovrebbe trasgredire vista la sua importanza, ma pur correndo il tremendo rischio di semplificare (e qui lascio a ciascuno la possibilità di approfondire la storia e il pensiero di questo personaggio) Bonhoeffer diceva che, se era colpevole uccidere Hitler, era colpevole anche stare a guardare e lasciarlo fare, perché concretamente, al di là dei grandi ideali di pace e giustizia di cui possiamo ammantare i nostri discorsi, le grandi affermazioni di principio non sono di nessun aiuto alle vittime presenti e future del dittatore (vedi la metafora del topo sotto la zampa dell’elefante, fatta da Tutu). Bonhoeffer si sentiva in una situazione in cui qualsiasi scelta avesse fatto sarebbe stato comunque colpevole, e come Pastore e credente si chiedeva cosa lo salvasse davanti a Dio. La sua risposta era che la salvezza, cristianamente intesa, non sarebbe dipesa né dalla partecipazione all’attentato contro Hitler né dalla non partecipazione, né dal soccorso dato alle vittime: nessuna opera “meritoria” o “non meritoria” avrebbe deciso la sua salvezza, ma solo la richiesta di perdono davanti a Dio per le proprie azioni e la propria vita. Bonhoeffer sapeva che se tu vuoi migliorare questo mondo senza sporcarti le mani, se vuoi pulire un camino pensando di uscirtene bianco e immacolato come la neve, sei un illuso. La giustizia, non pensata come un ideale, ma concretamente realizzata attraverso le proprie scelte e azioni, richiede una responsabilità che comporta lo sporcarsi con la storia del proprio tempo. Chiariamo, Bonhoeffer non teorizzava l’omicidio come l’ordinaria soluzione di problemi o conflitti, come già detto era pacifista, ma viveva in un tempo oggettivamente molto particolare, un tempo straordinario in cui ciò che è valido nell’ordinario non lo è più e va ridefinito: “Era urgente dare ad esempio una risposta agli interrogativi che la partecipazione alla resistenza suscitava nella coscienza, imponendo scelte e comportamenti contrastanti con i concetti etici validi in tempi ordinari…al caso limite può far fronte solo la libera responsabilità, cioè la capacità di individuare linee di comportamento al di fuori dei limiti delineati dall’etica valida nei tempi ordinari”(Alberto Gallas, Antropos Teleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Queriniana 1995).
Noi oggi non viviamo con Hitler che nazifica la società e le chiese e pianifica soluzioni finali per etnie non gradite (anche se qualcosa di simile ancora accade in diverse parti del mondo, ma non in Italia): quella di Bonhoeffer fu una circostanza estrema in circostanze estreme e il suo pensiero va compreso nel contesto della situazione storica veramente unica in cui si trovava, ma lui sentiva la responsabilità verso il popolo tedesco di cui era parte. Non poteva limitarsi a fare qualche opera di bene per tacitare la coscienza o a parlare di giustizia da un pulpito (cosa che tra l’altro, in qualità di Pastore, già faceva egregiamente): in quel momento per lui “giustizia” significava fermare il pazzo al volante, Hitler. Piccolo appunto interessante: la cronaca riporta che proprio il tentativo di fermare il pazzo omicida, nel caso specifico il terrorista, anche a rischio della propria vita, si è davvero verificato nel caso della strage di Nizza, infatti leggiamo: “L’attentatore è stato leggermente rallentato dall’intervento di un uomo, che ha cercato di affiancare il veicolo con il suo scooter e, dopo aver tentato di immobilizzare il conducente cercando di saltare nella cabina del camion, è caduto a terra. Inizialmente si credeva che il motociclista fosse morto sul colpo, ma la notizia è stata successivamente smentita. La scena è stata anche ripresa da un giornalista tedesco, Richard Gutjahr, che ha immortalato il motociclista mentre tentava invano di bloccare l’attentatore”.
Non sta a me esprimere un giudizio sulle scelte di Bonhoeffer, oltretutto a decenni di distanza e in una situazione storica, la mia, che nemmeno somiglia lontanamente a quella che egli viveva. Tuttavia il tema della responsabilità verso la società in cui viviamo e verso i propri contemporanei non deve smettere di interrogare tutti noi, cristiani inclusi. La domanda che la metafora di Bonhoeffer pone dunque resta: davanti al pazzo che guida a folle velocità e uccide, si può essere neutrali? Per Bonhoeffer era colpevole la chiesa collusa col regime, ma altrettanto lo era restare a guardare, e la neutralità davanti al male crescente, quella passività che favoriva lo status quo del Regime non era per lui accettabile, la sua coscienza nutrita da una forte fede nell’evangelo non glielo permetteva. Egli si sentiva solidale col popolo tedesco, al punto che nonostante fosse riuscito ad evitare il coinvolgimento nel conflitto espatriando in America, dopo pochi giorni decise coraggiosamente di tornare nella sua Germania: troppo forte il disagio di sentirsi al sicuro lontano dall’Europa mente i suoi compatrioti (amici e familiari inclusi) vivevano e subivano una situazione così difficile. Troppo forte il senso di responsabilità verso il suo Paese, e d’altronde il Cristo che egli predicava dal pulpito era stato uno che aveva condiviso e si era fatto carico delle sofferenze degli uomini. Rinuncereste a pulire un caminetto per paura della caligine in nome di una presunta purezza? Come si fa a fare il bene, responsabilmente, concretamente, senza coinvolgersi, senza sporcarsi, direbbe Bonhoeffer? “L’azione responsabile è animata dal desiderio di modificare la realtà per amore dell’altro; essa rifugge dall’opportunismo, ma anche da affermazioni di principio che, per quanto eventualmente giuste in se, si rivelano impotenti di fronte alla storia. Vicende come…la congiura per uccidere Hitler, mostrano che chi ha voglia di liberare la Germania dalla furia omicida deve ‘sporcarsi le mani’, rinunciando alla purezza delle proprie scelte. Bonhoeffer non pensa che il fine giustifica i mezzi: l’uno e gli altri possono essere giustificati solo da Dio. L’atteggiamento di chi assiste inerte al massacro va però respinto ad ogni costo”. (Fulvio Ferrario, Dietrich Bonhoeffer, Claudiana 1999)
Questa della purezza, e quindi della separazione rispetto al mondo, è un falso ideale tra l’altro sostenuto non dal cristianesimo ma dallo stesso nazionalsocialismo, col mito della pura razza ariana. È un modo per deresponsabilizzarsi rispetto alla società e alla comunità umana di cui si fa parte, rispetto all’altro che vive e soffre come me.
Persone come Tutu o come Bonhoeffer, anglicano il primo e luterano il secondo, ci insegnano a rifuggire come “inautentica una interpretazione del cristianesimo che imponga all’uomo il distacco dalla realtà mondana in nome della trascendenza” (A. Gallas, Antropos Teleios…), a non essere “neutrali” e stare a guardare rispetto alle ingiustizie del proprio tempo ma a vivere ed agire responsabilmente e attivamente nel presente per il bene dell’altro e di ogni uomo indipendentemente dall’appartenenza etnica o confessionale.
Grazie per i preziosi spunti di riflessione che fanno appello alle nostre coscienze . Ma come si fa a non sentirsi impotenti sul che fare? Come si può contare e decidere la linea di condotta da adottare che, in questo caso, non sia solo militare?. Mi sembra che, con il Messaggio del Presidente del Consiglio Draghi al Parlamento, l’Italia ha fatto la sua scelta di non neutralità, ma questo basta per garantire e costruire una pace duratura e soprattutto tacitare le nostre coscienze? Continuare a considerare gli eventi e accadimenti umani come imputabili alle gesta di un folle ci deresponsabilizza . Quella evidenziata dall’articolo è una responsabilità individuale ancorata alla propria singolare e unica coscienza che può spingerti a fare scelte pericolose per la tua vita per salvare quella di altri e sovente anche il contrario, come ci viene esemplarmente ricordato nell’articolo, quella che oggi è insufficiente è una coscienza collettiva che riesca a dare una direzione non catastrofica agli eventi e non continuare solo a subirli.