La gente non giudica solo le idee, ma anche le parole, e il senso delle prime è spesso influenzato dal senso delle seconde. Per esempio, la parola “guerra” può suscitare in alcuni l’immagine di fanfare, plotoni di soldati che avanzano in formazione, in altri il ricordo di parenti morti in battaglia, in altri ancora la memoria di case distrutte da un bombardamento. Questa ovvia riflessione fu alla base dell’invenzione della “neolingua” nel romanzo 1984 di George Orwell, nel quale si legge: «Fine della Neolingua non era soltanto quello di fornire un mezzo di espressione per la concezione del mondo e per le abitudini mentali proprie ai seguaci del Socing, ma soprattutto quello di rendere impossibile ogni altra forma di pensiero. … Ciò era stato ottenuto in parte mediante l’invenzione di nuove parole, ma soprattutto mediante la soppressione di parole indesiderabili e l’eliminazione di quei significati eterodossi che potevano essere restati». Con il suo romanzo Orwell intese lanciare un monito contro gli abusi di potere, manifestatisi in forme gravissime e allarmanti negli anni intorno alla seconda guerra mondiale, contro l’appiattimento della coscienza e dei sentimenti, contro la sopraffazione mentale compiuta dalle ideologie.
Questo monito orwelliano è tuttora attuale perché i medesimi rischi trovano spazio nei gruppi ad alto controllo mentale, che creano un gergo interno finalizzato all’acquiescenza da parte degli affiliati. Infatti, come ha scritto lo psichiatra Robert Jay Lifton, l’espressione «“gergo interno” si riferisce a una struttura linguistica in cui parole e immagini diventano princìpi dottrinali. Un linguaggio assai semplificato potrebbe sembrare ridotto a degli slogan, ma può avere un forte richiamo e potere psicologico proprio per la sua semplificazione. Nel caso dei culti ci troviamo spesso di fronte all’adesione da parte di giovani con vite molto complicate, e poiché tutti i problemi della vita possono essere ricondotti a semplici enunciati dotati di una propria coerenza interna, allora diventa possibile rivendicare l’esperienza della verità e sperimentarla. Esistono, cioè, risposte precise. Lionel Trilling l’ha definito il “linguaggio del non pensiero” perché si riducono a cliché e slogan tematiche altrimenti difficili e complesse.»
Al riguardo, l’ex cultista Steven Hassan racconta: «Quando ebbi decondizionato la mia mente a pensare secondo il gergo del culto, potei di nuovo guardare al mondo senza le distorsioni che esso mi procurava. Il gergo cultista aveva infatti scavato nel mio cervello i canali attraverso i quali, da adepto, filtravo tutta la realtà. Più rapidamente un ex adepto riesce a riappropriarsi delle parole comuni e del loro vero significato, più veloce sarà il suo recupero.» (S. Hassan, Mentalmente liberi. Come uscire da una setta, Roma 1999)
Analisi quanto mai limpida e calzante dei tempi che viviamo e non solo rispetto al covid ma ormai da qualche decennio. Riusciremo a venirne fuori? Se la causa prima di questo fenomeno, come penso, sono la comunicazione televisiva e i social, dovrebbe essere l’istruzione a contrastarlo. Ma quando lo stato della nostra istruzione pubblica sarà in grado di selezionare gli insegnanti in grado di riuscirci? Per non dire dei contesti familiari, nei quali gli stessi genitori sembrano spesso definitivamente condizionati.
Come sempre è un piacere leggere i suoi articoli. La riflessione è attuale e tristemente drammatica. Forse l’unico modo per formare una “coscienza critica” rimane la Cultura. Purtroppo il fenomeno globale della massificazione dell’informazione, l’accesso indiscriminato ai social media, la “verità” a portata di click ha minato alla base quella gerarchia di valori che erano insiti nelle persone. Il concetto stesso di “sacrificio per la crescita etica e morale attraverso lo studio”, come diceva l’antropologo Clifford James Geertz, è visto come “una inutile perdita di tempo”. Quando tutto sembra facile, easy, scontato, niente ha più valore.