Nel dedalo di strade nascoste dagli eleganti palazzoni in stile “eclettico” di Corso Umberto I a Napoli (che la scrittrice e giornalista Matilde Serao paragonò a degli immensi paraventi eretti per nascondere i vecchi e brulicanti quartieri non “risanati dal piccone”) si possono riscoprire vere e proprie meraviglie. Ad esempio, in via Giuseppe Guacci Nobile, addossata ad una fabbrica post barocca, troviamo una splendida fontana monumentale: la fontana della Spinacorona. Il gruppo scultoreo in marmo rappresenta una Sirena (avis mulier) nell’atto di “spegnere” gli ardori ignici del Vesuvio grazie all’acqua che sgorga dai suoi seni. Completano la composizione una vasca decorata “a festoni” e due fregi, con stemmi araldici di Carlo V, posti ai lati della struttura. Una lapide in latino, di scuola pontaniana, recitava: “Dum Vesevi Syrena Incendia Mulcet” (Sirena placa il fuoco del Vesuvio); purtroppo essa fu trafugata a inizio Novecento.
Il nome “Spinacorona” deriva dalla chiesa trecentesca voluta dagli Angioini e dedicata a Santa Caterina, detta “in spina Crucis” dove era conservata una reliquia della passione di Cristo. La fontana infatti era appoggiata lungo le mura perimetrali dell’edificio di culto. Per il popolo tale fontana era: delle “zizze” (dei seni femminili), in richiamo ai particolari zampilli adoperati dallo scultore. Le fonti storiografiche non ci informano sul periodo della sua costruzione, ma grazie a un documento relativo alla distribuzione idrica in città (“Platea delle acque” del 1498) apprendiamo che la fontana era già in situ da tempo. Fu restaurata e modificata per volere del viceré don Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga su disegno di Giovanni da Nola nella prima metà del XVI secolo, come attestato dalla presenza dello stemma di Carlo V. La statua rappresentante la sirena fu sostituita da una copia nel 1920, opera dello scultore Tito Angelini. L’originale, musealizzato, si trova attualmente nella Certosa di San Martino.
Il restauro (operato recentemente con fondi UNESCO) ha ripulito la fontana da secoli di sporco e concrezioni, evidenziando, secondo gli esperti della Sovrintendenza, le differenze stilistiche e di datazione delle parti che compongono la fontana. Infatti, mentre i fregi laterali e la vasca sono facilmente riconducibili allo stile tardo rinascimentale di Giovanni Merliano da Nola, le rappresentazione del Vesuvio e della statuetta della Sirena sembrano appartenere a “mani” differenti. Guardando bene anche i marmi usati risultano essere di tre colori differenti. Senza nessuna pretesa di scientificità filologica o storica cercheremo, attraverso un’analisi deduttiva di far emergere una lettura, alternativa e verosimile, del monumento.
Iniziamo dal luogo. Sin dal IX secolo d.C. tutta l’area che andava dalle rampe della chiesa di san Marcellino fino all’attuale zona di Portanova era un quartiere abitato dalla comunità ebraica, chiamato “Giudecca di san Marcellino”. Dal sito Jewishitaly.it apprendiamo che il quartiere ospitava la fiorente attività dei tessitori. Già nel 989 è documentata una sinagoga, la stessa sinagoga che nel 1290 fu trasformata nella chiesa di “Santa Caterina in spina Crucis”, sul cui lato si trova la “fontana delle zizze”. Dalla stessa fonte apprendiamo che all’esterno di ogni edificio di culto doveva essere presente una vasca per le “purificazioni rituali”, detta “Mikveh”. Tale vasca, per essere considerata efficace, doveva essere alimentata da “acqua viva”, cioè di fonte. Nel summenzionato documento “Platea delle acque” è specificato che la fontana della Spinacorona era alimentata dal fiume Sebeto attraverso il “pozzo di san Marcellino”. La rappresentazione della sirena, nella città fondata sulla tomba di Partenope, sembra essere scontata ma, in realtà, già nell’arte pre-Romanica (VIII- IX secolo), le sirene venivano rappresentate nella forma di donne-pesce (in quanto incarnazione della lussuria). La combinazione donna-uccello, riferita alla creatura mitologica, appartiene alla cultura ellenica molto precedente (come testimoniato nell’Odissea composta oralmente nel XI secolo a.C. e nei vasi attici di Skopas a figure nere dell’VIII secolo a.C.).
Leggendo l’interessante saggio di Maria Marta Fernandez dal titolo “La presenza di Lilith negli scritti rabbinici e le sue origini”, sembrerebbe plausibile l’uso della rappresentazione di questa creatura mitologica a fini apotropaici (le figure apotropaiche avevano lo scopo di allontanare le influenze negative da luoghi ed edifici). Confrontando poi la scultura di Napoli col il Rilievo Burnley della collezione Norman Colville al British Museum di Londra, si nota che la nostra presunta sirena ha più punti in comune con la Lilith del folklore ebraico piuttosto che con Partenope.
Che sia Partenope o Lilith, non possiamo fare altro che essere d’accordo con Curzio Malaparte quando diceva: “Napoli è la più misteriosa città d’Europa, è la sola città del mondo antico che non sia perita come Ilio, come Ninive, come Babilonia. È la sola città del mondo che non è affondata nell’immane naufragio della civiltà antica. Napoli è una Pompei che non è stata mai sepolta. Non è una città: è un mondo. Il mondo antico, precristiano, rimasto intatto alla superficie del mondo moderno.”