Mamozio e Pirchipetola

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Riproduzione fotografica di un’opera raffigurante la piazza con Mamozio a Pozzuoli (Fonte: Wikimedia Commons)

Nell’ultima visita ufficiale del leader della Lega Nord, Matteo Salvini, tenutasi nella centralissima Piazza Nazionale a Napoli il 22 luglio scorso, la performance di una cittadina destò una certa curiosità. Una signora affacciata al suo balcone che dava sulla piazza, all’arrivo di Salvini, innalzò come un vessillo corsaro un enorme numero 49. Tra gli astanti qualcuno credette, sbagliando, che si trattasse del compleanno del “capo carroccio” (anniversario che cadrà il prossimo 9 marzo). Altri, più versati nelle scienze cabalistiche, pensarono che il “49” fosse da leggersi in chiave “smorfistica” ed indicasse quindi “‘O piezz’e carne”, pezzo di carne, inteso sia con il significato di genere alimentare ma anche nell’accezione metaforica di “essere umano privo dell’anima”. Solo qualche magistrato, recandosi presso i vicini uffici della Procura della Repubblica, capì che il “49” esposto dal balcone, si riferiva ad una cifra in euro: 49 milioni, per l’esattezza. La stessa somma elargita dal Parlamento alla Lega per i rimborsi elettorali del periodo 2008-10, percepita in maniera illecita dal partito (secondo gli inquirenti), all’epoca guidato da Umberto Bossi & co.

Qualcuno dalla piazza avrà ricordato le dichiarazioni rese al Sole 24 ore (6 settembre 2019) dallo stesso Salvini: “è da anni che vanno avanti con questa storia dei 49 milioni, a me non cambia niente, non mi cambiano la vita”. Ad altri certamente sarà tornato alla mente il lancio di generi ortofrutticoli all’indirizzo dell’intervistato, avvenuto nell’ultimo (tentato) comizio di Matteo a Napoli nel settembre 2020 ed avranno pensato al modo di dire napoletano: “Santu Mamozio mio, ‘e bbone t’ ‘e magne e ‘e toste m’ ‘e manne arrete” (Santo Mamozio, quelli buoni te li mangi e quelli più duri me li rendi). Tale locuzione trae origine da una pratica in uso tra i fruttivendoli puteolani del XVIII secolo. Gli stessi, per provare ai clienti il giusto grado di maturazione dei frutti venduti, erano soliti scagliarli contro una bislacca statua presente nell’antica piazza del Mercato (oggi piazza della Repubblica). Tale statua, dal popolo flegreo chiamata “San Mamozio”, era in realtà un reperto archeologico del IV secolo, ritrovato nel 1704 durante gli scavi per la costruzione della chiesa di San Giuseppe. Alla reliquia romana purtroppo mancava la testa. Per cui, prima di esporla nella pubblica piazza, le autorità cittadine commissionarono la scultura di un volto ad un poco valente scultore locale. Infatti la testa risultò essere così sottodimensionata rispetto al busto da dare un’impressione d’insieme ridicola. Visto che sul basamento era scolpito il nome del personaggio ritratto, il console Lolliano, appartenente alla stirpe patrizia dei Mavorzi, per il popolo divenne semplicemente Mamozio. Il nobile in laticlavio senatoriale, imponente ma dalla piccola testa, fece nascere il termine “mamozio” riferito a persona sgraziata nel sembiante ma che conserva ciò malgrado un atteggiamento di tronfia autorità. Tale termine può riferirsi anche a persone scarsamente intelligenti o inadatte ad un ruolo elevato perché ridicoli. Ma come divenne poi Santo il console romano? Per acclamazione popolare. Il ricercatore ed erudito conoscitore delle vicende flegree Roberto Annecchino, nel suo libro “Mamozio nella storia e nella leggenda” ci racconta la vicenda. Ad ornamento della stessa Piazza del Mercato, dove era stata installata la statua di Mamozio, venne eretto un monumento al Vescovo di Pozzuoli Martin Lèon Cárdenas, sul lato opposto dello slargo. Per l’immaginifica propensione di dare un nome a tutte le cose, propria dei popoli mediterranei, e anche perché molti “rustici” non sapevano distinguere la destra dalla sinistra, si divise la piazza in due cantoni: lato “do’ Santu Piscopo” e lato “de Santu Mamozio”.(Anche se nessuno dei due personaggi era assurto alla gloria degli altari). Il reperto costantiniano fu spostato dal suo originale posizionamento solo nel 1919: per preservarlo dalla “ignobile usanza” dei fruttivendoli e per dargli una degna collocazione, fu allocato prima nell’Anfiteatro Flavio e successivamente nel costituito Museo archeologico dei Campi Flegrei al Castello di Baia. Il termine “mamozio” entrò così a far parte del patrimonio linguistico del nostro Paese.

Tutti noi sappiamo che le parole sono importanti, soprattutto quando usate per incitare all’odio. Nel rapporto quadriennale redatto dall'”Osservatorio internazionale sulla politica”, aderente alla fondazione Amnesty International (pubblicato sull’agenzia di stampa ADN Kronos nel febbraio 2018) si legge: “in Italia si assiste ad un grave degrado del confronto politico e culturale, con una deriva sempre più veloce verso il razzismo, l’odio e la violenza”. “Sul totale delle dichiarazioni a stampa e verbali di tutte le forze politiche, apprendiamo che il 95% delle ‘frasi d’odio’ è appannaggio del Centrodestra. Di questo 95% più dei tre quarti delle affermazioni appartengono a solo due politici: Salvini e Meloni”.

Anche se nella mia testa rimbomba il termine coniato da Umberto Eco, “urfascismo” o “fascismo eterno”, rientrando nella sfera della lingua napoletana, c’è un simpatico aggettivo per definire il secondo personaggio politico: Pirchipetola, termine usato per indicare una ragazzina saccente e linguacciuta (secondo lo Schedario napoletano di Giuseppe Giacco); etimologicamente nato dalla contrazione fonetica di due termini latini: Pirchi (piccolo pesce mediterraneo, immangiabile perché spinosissimo, dalla caratteristica bocca esageratamente larga) e Petina (piattola, parassita infestante le zone genitali). Absit iniuria verbis.

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