I clamorosi successi sportivi di questa estate ci consegnano un’Italia paese di atleti, pallavoliste e calciatori. Insieme alla ripresa economica superiore alle aspettative, le vittorie sportive sono le uniche buone notizie. O forse ce n’è una terza: se si dovesse scoprire che gli incendi scoppiati nel grattacielo di Milano e nell’edificio storico di Torino sono di origine dolosa, sarà ragionevole immaginare che cominciano a muoversi nuclei ambientalisti decisi a recuperare spazi urbani per l’agricoltura o, meglio ancora, per i pascoli.
Per digerire le notizie cattive o pessime, e sono tante, occorre una buona dose di ironia che, connaturata com’è al cinismo, funziona egregiamente da anestetizzante e ti permette di girare la testa dall’altra parte. E quindi superiamo con leggerezza le alluvioni, gli uragani, gli incendi boschivi senza precedenti, le temperature micidiali e tiriamo avanti. Ho acquistato delle ottime arance al supermercato. Settembre, si sa, non è il mese delle arance e dai fruttivendoli si rischiano grosse fregature. Sorpreso dall’insperata qualità del prodotto acquistato, ho esaminato l’etichetta immaginando che provenisse, che so, dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Turchia o forse addirittura da Israele. Mi sbagliavo: le arance provenivano niente meno che dal Sudafrica. Più che provenire, le arance le avevano portate, presumibilmente via mare, passando per il Canale di Suez su una nave da carico che avrà incrociato petroliere, navi provenienti dalla Cina con tonnellate di manufatti concorrenziali e forse anche contraffatti. Insomma un traffico di merci e di forniture importanti. Ma le arance sudafricane no, non possono venire dal Sudafrica! Altro che i kilometri zero auspicati da tanti ambientalisti illusi anche se, grazie alle emissioni di anidride carbonica derivanti dal trasferimento dei prodotti agricoli, arriveremo forse un giorno ad accorciare le distanze che ci separano dai prodotti esotici: le mutazioni climatiche già in atto permetteranno di coltivare i datteri in Trentino, il mango in Lombardia, le banane in Molise e magari, per allitterazione, gli avocado a Napoli, patria degli studi giuridici e della professione forense. Non riusciamo a immaginare cosa resterà ancora da coltivare in un Marocco o in una Tunisia in via di desertificazione.
In realtà occorrerebbe che la società occidentale riducesse i suoi capricci alimentari e la sua vocazione consumistica in generale. Qui da noi non ci si accontenta più dei prodotti nazionali che tutti ci invidiano. Oggi imperversano mango, papaie, noci di Macadamia, carni argentine, bistecche irlandesi, salmone scozzese e tante altre “specialità” senza le quali pare non si possa svolgere un’apprezzabile attività culinaria. E il trasferimento di questi miracolosi prodotti da un capo all’altro del pianeta non è che l’ultima delle ferite inferte dall’agricoltura e dall’allevamento intensivi che ci hanno già regalato deforestazione, impoverimento dei suoli, circolazione di anticrittogamici e di antibiotici. Il tutto per non far mancare sulla tavola di chi può permetterseli i più superflui ma accattivanti alimenti.
Prendiamo il cioccolato. Una volta c’erano il fondente e quello al latte, solo più tardi venne il cioccolato bianco. Ma da qualche anno queste varietà sono state declassate a prodotti generici, popolari. Oggi chi mangia cioccolato ne ha a disposizione una gamma impressionante. Una celebrata multinazionale propone oggi il fondente al 70%, Intenso, al 78%, Avvolgente, all’85%, Deciso, al 90%, Prodigioso e al 99%, Assoluto (le denominazioni sono del produttore). Con quali indagini di mercato avranno scelto queste percentuali? Perché il 78% e non il 77%? Qualcuno sarebbe in grado di distinguere l’uno dall’altro? E perché non si produce il fondente al 100%? E cosa mai ci sarà nell’1% presente in quello al 99%? Sono domande alle quali è difficile dare una risposta. Evidentemente ci saranno consumatori raffinatissimi (altro che gli enologi, i sommelier e gli chef stellati) in grado di cogliere le differenze. Oppure, chissà, c’è un percorso degustativo, quasi iniziatico, che parte dalla percentuale più bassa per concludersi nell’estasi del livello più alto. Se è così, quali criteri hanno indotto altri produttori a delineare percorsi alternativi mettendo sul mercato cioccolato fondente al 75, all’80 e all’88%, cioè con percentuali totalmente diverse? Non vorremmo che dietro la tanto ostentata precisione si celasse la massima casualità: prima si vede quanto cacao è presente nell’impasto appena ultimato e poi si decide di schiaffarci sopra l’etichetta altisonante più vicina al risultato. Tutto è possibile nella spirale consumistica che induce nelle classi più abbienti il bisogno del superfluo per poi alimentarlo in base alle leggi di mercato. Già negli anni Sessanta del secolo scorso l’economista e pensatore canadese John Kenneth Galbraith denunciava, nel suo celebre saggio “La società opulenta”, i rischi di questo meccanismo perverso ed i suoi effetti collaterali, senza nascondere il suo scetticismo: sua l’amara affermazione: “Nel capitalismo l’uomo sfrutta l’uomo; nel socialismo è proprio il contrario”. Ma cosa è restato del suo appello? Nulla. I tanti milioni di copie stampate e vendute inutilmente hanno, se mai, contribuito alla deforestazione in atto.