Il 30 giugno 1799, alle ore sei del mattino, sulla fregata militare “Minerva” fu innalzata la forca. Fu posta sul più alto pennone per eseguire la condanna a morte comminata all’ammiraglio della Repubblica Partenopea Francesco Caracciolo, reo di “alto tradimento”. Il corpo morto fu lasciato a penzolare sotto il sole per ore, poi buttato in pasto ai pesci. Dopo diversi giorni la salma riemerse dai flutti e si andò ad incagliare proprio sotto la murata della nave che trasportava il re Ferdinando IV. Il Borbone, essendo superstizioso fino al midollo e temendo la vendetta del fantasma di Caracciolo, fece issare il cadavere a bordo ed appena sbarcati gli fece dare degna sepoltura nella vicina chiesa di Santa Maria della Catena. Esattamente 222 anni or sono si compiva il fato del patriota nel borgo di Santa Lucia, nello stesso posto che il “re lazzarone” amava frequentare travestendosi da pescatore, nello stesso quartiere da dove provenivano gran parte dei marinai della flotta reale, nella stessa Santa Lucia che oggi non esiste più.
Alle falde del monte Echia, i monaci Agostiniani del vicino monastero del Salvatore (che fu costruito sulle rovine della villa romana di Vedio Pollione sull’isolotto di Megaride) fondarono una chiesetta dedicandola alla Santa siracusana Lucia, protettrice della vista. Intorno alla cappella nacque il primo piccolo villaggio di capanne abitato da pescatori. In epoca angioina l’intera zona (compreso il porto) fu data in concessione ai provenzali, concittadini dei re, e crebbe molto la sua importanza militare e commerciale.
Solo nel XVI secolo don Pedro de Toledo, per facilitare il transito delle merci e delle truppe dal porto verso il palazzo vicereale, ordinò la riqualificazione dell’intera area, detta dei “provenzali”, all’architetto Domenico Fontana. Fu costruita una strada lastricata e, abbattute le baracche dei pescatori, fece erigere palazzi per ospitarli lungo la nuova arteria. L’intero nuovo abitato prese il nome di Santa Lucia, sostituendo il vecchio toponimo di via dei Provenzali, e gli abitanti del quartiere vennero appellati da allora “Lucìani”. Nel 1576 venne edificata un’altra chiesa, quasi in riva al mare, dedicata a Santa Maria della Catena, omaggio dei devoti del borgo all’effige della Vergine che a Palermo nel 1390 compì il prodigio di far spezzare le catene a dei condannati ingiustamente a morte, che avevano invocato il suo aiuto.
A questo edificio di culto era legata una particolare festa che si celebrava l’ultima domenica di agosto. I Luciani, vestiti a festa, dopo aver ascoltato le funzioni religiose, uscivano sull’antistante spiaggia e si tuffano in mare completamente vestiti. Questo rito marino collettivo commemorava la vittoria di Lepanto ottenuta dalla flotta della Lega Santa su quella Ottomana del 1571 e la relativa liberazione dei mari dalle frequenti incursioni dei pirati turchi.
Altra celebre manifestazione popolare era la festa della “‘Nzegna”. Il 10 agosto di ogni anno una coppia di sposi luciani impersonava Ferdinando IV di Borbone e la consorte Maria Carolina. I consorti dovevano essere necessariamente un venditore di ostriche e una venditrice di acqua “zurfegna” (tipici mestieri praticati da sempre nel borgo rivierasco). Un allegorico corteo di popolani, abbigliati da nobili, sfilava per il borgo, ma bisognava fare attenzione a seguire il corteo con partecipazione e divertimento, altrimenti si veniva sollevati di peso e scaraventati in mare. Il filologo Renato De Falco racconta appunto che il termine ‘Nzegna abbia il significato di “insegnare”, insegnare in questo caso a lasciarsi trasportare dal divertimento.
Grazie al passaparola dei viaggiatori del “grand tour” ottocentesco, Santa Lucia divenne un luogo da visitare almeno una volta nella vita, per la sue bellezze paesaggistiche, per i cibi tipici come ‘o purpetiello alla lucìana, ‘a molegnana doce (timballo di fette di melenzane fritte su strati di cioccolato amaro e scaglie di confetti), i frutti di mare esposti sulle tipiche bancarelle e l’acqua ‘e mummera (acqua minerale, raccolta in anfore di creta dalla fonte del monte Echia, donata ai lucìani dai Borbone) e la particolare “bellezza selvaggia” delle donne del borgo.
Alla metà dell’Ottocento, lo scrittore francese Paul de Musset annota nel suo “Viaggio pittoresco in Italia”: «se vi è un luogo della Terra in cui si possa essere felici, questo luogo è Santa Lucia». Questa oasi felice dovette fare i conti col progresso e col “piano di Risanamento” del 1884. Gli interventi urbanisti stravolsero il quartiere: la colmata del mare e la conseguente modificazione della linea di costa trasformarono Santa Lucia in una strada interna, lontana dal mare. I lavori di abbellimento, che durarono per tutto l’inizio del Novecento, fecero del borgo un elegante boulevard in stile liberty. Per ospitare i Lucìani sfrattati per le demolizione, fu prevista la costruzione del cosiddetto “borgo marinaro” sull’isolotto di Megaride, ma terminati i lavori molti di loro non potettero permettersi gli esorbitanti affitti: chi emigrò verso gli Stati Uniti, chi “emigrò” verso altri quartieri della città. Finì con loro un’epoca e come diceva il vecchio ostricaro, protagonista del poema di Ferdinando Russo ‘O “Luciano” d’ ‘o Rre:
Addò se vere cchiù, Santa Lucia?!
Addò sentite cchiù l’addore ‘e mare?
Nce hanno luvato ‘o mmeglio, ‘e chesta via!
N’hanno cacciato anfino ‘e marenare!
E pure, te facea tant’allegria,
cu chelli bbancarelle ‘e ll’ustricare!
‘O munno vota sempe e vota ‘ntutto!
Se scarta ‘o bello, e se ncuraggia ‘o brutto!