Fermi al semaforo dell’incrocio rovente tra via Terracina e via Cintia, chi potrebbe immaginare che sullo stesso luogo, circa venti secoli fa, sorgesse “Marcianum”, primo insediamento urbano nell’area dell’attuale Fuorigrotta? Il villaggio era cresciuto nei secoli attorno alla villa agricola della gens Marciana (nobile famiglia della Roma imperiale), sviluppandosi lungo l’asse viario “per Collem” che congiungeva il porto di Napoli a quello di Pozzuoli (nel villaggio di Marcianum fu sepolto san Gennaro dopo il martirio subito nel 305 d.C.).
In età Claudia il porto puteolano divenne lo scalo principale della flotta militare e si decise quindi di costruire una strada alternativa e più agevole. Fu scavato allora un tunnel nella collina di Posillipo, la “Crypta Neapolitana”, che velocizzò il transito di uomini e merci. L’intera zona all’uscita del tunnel prese il nome di “foram Cryptam”, fuori dalla grotta, Fuorigrotta, toponimo che conserva ancor oggi.
La fertile pianura vulcanica fu “l’orto e il bosco della città di Napoli” fino a tutto il XIX secolo. I ricchi fondi agricoli, parcellizzati in età aragonese, furono venduti o ceduti ai grandi ordini monastici cittadini, Carmelitani, Domenicani e Francescani, attraverso il sistema della concessione in mezzadria dei terreni, favorendo l’inurbamento dell’area. Nella zona oggi chiamata Agnano, perché ricca di laghi di origine vulcanica, si insediarono i lavoratori della canapa. Sotto la collina del Vomero, dove sorgeva un fitto bosco (la Loggetta), dimoravano i boscaioli ma anche briganti e grassatori che rapinavano gli incauti viandanti lungo la “scesa de li Canzani” (attuale via Caravaggio).
Il primo piccolo centro abitato nominato Fuorigrotta si formò nel XVII secolo attorno all’antica cappella di San Vitale (abbattuta alla fine dell’Ottocento), nell’attuale area compresa tra piazza Italia e via Giulio Cesare. Nel piano urbanistico post colera del 1884 l’area occidentale della città fu individuata per la costruzione di nuovi rioni di edilizia popolare per ospitare gli sfollati dei quartieri napoletani “sventrati” dal Risanamento. Con le case arrivarono le infrastrutture come, nel 1885, la nuova galleria (oggi Galleria Quattro Giornate), la linea tranviaria, la Ferrovia Cumana, inaugurata nel tratto Montesanto-La Pietra nel 1889. Lo stesso anno arrivò l’illuminazione pubblica. L’ultimo lampione ad olio combustibile, il numero 6666, installato presso il teatro dei pupi “Verdi” (all’inizio dell’attuale via Consalvo) divenne proverbiale; secondo il detto essere “l’urdemo lampione ‘e Forerotta” significa non contare niente.
Gran parte della toponomastica viaria attuale, che celebra i personaggi dell’antica Roma e della battaglia di Lepanto, è dovuta agli amministratori del ventennio fascista. Dal 1931 al 1940, anno dell’inaugurazione del complesso fieristico “Mostra triennale delle terre Italiane d’Oltremare”, il quartiere fu interessato da radicali lavori che fecero sparire completamente la vecchia Fuorigrotta. Al grido di “la parola a sua maestà il piccone” si partì. Il progetto, che interessò un’area di 850.000 mq, prevedeva la costruzione di una funivia di collegamento con Posillipo (in funzione dal 1940 ma attiva solo pochi mesi a causa dell’entrata in guerra dell’Italia; riprese il servizio dal giugno1952 fino al febbraio 1961) e di un nuovo traforo di collegamento con Mergellina (attuale galleria Laziale), da cui si partiva un immenso viale a doppia corsia (viale Augusto) fino alla piazza per le adunanze fasciste, intitolata piazza dell’Impero (piazzale Tecchio). Per la realizzazione della parallela via Giulio Cesare fu abbattuto il quartiere operaio nominato Castellana. Dalla megalomania fascista al razionalismo organico degli anni Sessanta del ‘900 in cui si costruirono il Centro di produzione Rai, le sedi del Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Politecnico e lo stadio dedicato a San Paolo (ora al dio del calcio: Diego Armando Maradona).
La più bieca speculazione edilizia operò pure negli anni del cosiddetto “boom economico”, sfregiando il “giardino di Napoli” con anonimi palazzoni di cemento armato, per l’assenza di un piano regolatore e soprattutto per la connivenza delle istituzioni, periodo storico ben descritto da Francesco Rosi nel film “le mani sulla città”.
Secondo una statistica dell’università Federico II, nell’ultimo trentennio del secolo scorso, nella città metropolitana di Napoli si sono edificati più metri cubi che nei precedenti tre secoli. Il quartiere in questione allora diviene metafora di un’intera metropoli che ha avuto una impennata demografica in meno di mezzo secolo.
Un’altra riflessione si impone considerando che l’intero territorio cittadino insiste su un’area ad alto rischio sismico e vulcanico. Ripensando al tempo in cui i pascoli e le dolci pianure flegree lambivano il mare, sferzate dalle brezze di ponente e guardando come è diventato, mi sovvengono i versi di Ungaretti:
“Hanno l’impercettibile sussurro,
non fanno più rumore
del crescere dell’erba,
lieta dove non passa l’uomo”.
Forse un giorno la Natura ce ne chiederà conto.
Interessante l’excursus storico della trasformazione dell’area di Fuorigrotta ma nel finale citerei le interessanti esperienze degli anni ’50 della edilizia residenziale pubblica in cui si sono cimentati eccelenti professionisti italiani che hanno realizzato interi quartieri di grande valenza architettonica
Buongiorno e innanzitutto grazie per aver letto l’articolo e di averlo commentato. Trovò corretta la sua analisi e sicuramente si è trattato di una “colpevole amnesia”: come lei dice nel quartiere operarono architetti come Giulio Cosenza, Stefania Filo Speziale (la prima donna a laurearsi in Architettura all’Università di Napoli), Carlo Cocchia ecc. ecc.) che furono tra i primi ad importare il linguaggio e i valori del Razionalismo tedesco della Bauhaus e del Werkbund in Italia.
Salutandola cortesemente mi scuso ancora per l’omissione.