A proposito di quote

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Uno dei simboli della parità di genere

La recente iniziativa del neo-segretario del Partito Democratico (PD), Enrico Letta, di sostituire con due donne i capigruppo del suo partito al Senato ed alla Camera è stata accolta da tutti con grande soddisfazione. Un vero sollievo per le donne che hanno interpretato il gesto come un giusto atto riparatorio di uno squilibrio a favore degli uomini, emerso in tutte le strutture del PD.

Senza nulla togliere al sacrosanto principio della parità di genere, qualche considerazione si rende necessaria riguardo alla sua applicazione nello specifico ambito delle istituzioni rappresentative, riflessioni che non intendono assolutamente negare la persistenza di gravi discriminazioni nei confronti delle donne anche nel nostro Paese. Per superarle occorrono ulteriori e decisivi passi avanti sia sotto il profilo della parità di trattamento e della protezione sociale sia, e soprattutto, sotto quello culturale. Mentre, infatti, nessuna persona scolarizzata nega che esistono tuttora gravi ingiustizie perpetrate ai danni delle donne dall’organizzazione produttiva e sociale, guidata in grande prevalenza da uomini, è anche vero che pur nelle più piccole cellule sociali (coppia, famiglia), in cui la parità sembra raggiunta, le attività più delicate e stressanti ricadono sulle donne: anche il marito che collabora con buona volontà alla conduzione della vita di coppia o di famiglia ritaglia per sé, di fatto, le faccende più facili e meno sgradevoli. Insomma, il riconoscimento delle auliche vesti di regina della casa e di angelo del focolare nasconde la solita fregatura, difficilmente eliminabile, per le donne. E quindi, se è lecito sperare che gli ostacoli all’effettiva uguaglianza sul piano sociale ed economico siano prima o poi superati grazie a provvedimenti di legge, più difficile è individuare il percorso per cancellare i pregiudizi culturali che ancora sussistono.

Restando nella sfera degli interventi concreti, è opinione diffusa che le leggi e le iniziative giuste si potranno adottare solo se e quando la presenza delle donne nelle sedi istituzionali diventi veramente significativa. Ed è qui che nasce il problema, perché le istituzioni in cui si legifera sono tutte rappresentative e vi si accede, com’è giusto che sia, solo per via elettorale. E le elezioni vedono in conflitto, da un lato, la giusta aspirazione alla parità di genere e, dall’altro, l’esigenza di assicurare al Paese i rappresentanti più qualificati. Certamente in questo momento storico, caratterizzato dal grave discredito della politica, è facile scivolare verso il concetto, vagamente grillino, che un uomo vale una donna e viceversa perché entrambi valgono poco, almeno nell’opinione corrente. Ma in linea di principio non è così. Ragionando in astratto ed immaginando che per due seggi concorrano due donne e due uomini, non è detto che la situazione ottimale sia eleggere una donna e un uomo o che magari non sia proprio quella di eleggere due donne.

Altro discorso si può fare per traguardi diversi da una carica elettiva, per i quali la situazione passo dopo passo si è evoluta positivamente per le donne. Se ci soffermiamo, ad esempio, sul successo scolastico o universitario, scopriamo che mediamente le donne conseguono valutazioni più elevate degli uomini e si affacciano con migliori credenziali al mondo del lavoro. E, quindi, nell’insegnamento la presenza femminile non è certo inferiore a quella maschile, mentre nella ricerca scientifica sono stati compiuti grandi passi avanti: non altrettanti forse nell’accesso alle cattedre accademiche spesso condizionato dalle influenze politiche, clientelari e baronali, di impronta tuttora maschile. Ma questo sembra essere un problema generale, da risolvere con una radicale riforma degli ordinamenti universitari.

Per le professioni libere il discorso è ancora diverso perché una disparità esiste, ma non può essere imputata alla volontà prevaricatrice degli uomini (se lo fosse, andrebbe comunque ricondotta all’immaturità culturale di cui si diceva all’inizio) ma piuttosto ad oggettive carenze di protezione sociale (maternità, asili nido ecc.) o eventualmente alla posizione di subalternità in famiglia che ci riporta, anch’essa, all’inadeguatezza culturale. E tuttavia incontriamo numerose eccellenze femminili anche nelle professioni libere: scrittrici, giornaliste, avvocatesse, architette ma anche attrici, cantanti, registe teatrali e cinematografiche, donne che evidentemente sono riuscite ad emergere superando gli ostacoli sociali e culturali incontrati.

D’altronde un paio di millenni e passa non sono trascorsi invano: da insignificante costola di Adamo (con l’obbligo di comportarsi come tale) a soggetto titolare di diritti sempre più ampi (quello di voto fu riconosciuto in Italia appena nel non lontano 1948) i passi sono stati tanti. Se invece parliamo di posizioni di potere, il discorso torna a cambiare: fatti salvi i titoli nobiliari che le donne, così come gli uomini, ereditavano diventando regine, principesse, marchese e via dicendo, solo poche donne sono assurte in passato a ruoli politici importanti. Gli ultimi decenni hanno però portato alla ribalta i nomi della Merkel, della Lagarde, della presidente della Commissione europea Von Der Leyen, delle commissarie europee Vestager (concorrenza), Kyriakides (portafoglio salute) e Jourovà (valori e trasparenza) in un organismo che conta dodici donne su ventisei componenti. A un livello territorialmente più limitato incontriamo la sindaca di Parigi, Hidalgo, ed in Italia quelle di Roma e Torino, per citare le città più importanti. È ancora poco, ma abbastanza per dimostrare che i pregiudizi negativi sulle donne in politica vanno sparendo. Chiedersi se alcune di queste donne abbiano raggiunto posizioni di vertice per effetto delle quote rosa non ha molto senso perché le quote rosa non sono presenti in tutta Europa. Qui da noi occorre ricordare che i partiti politici concorrono alle elezioni con liste bloccate e sono quindi liberi di applicare le quote rosa ma escludendo comunque gli elettori dall’esprimere le proprie preferenze. È vero che nei paesi in cui sono ammesse le preferenze la percentuale delle donne elette è inferiore (come nel Regno Unito) a quella dei paesi in cui vigono le liste bloccate, ma è altrettanto vero che l’inclusione in queste ultime crea un debito di riconoscenza troppo alto nei confronti di chi l’ha promossa, come abbiamo potuto tristemente constatare in occasione delle dimissioni forzate delle due ministre di Italia Viva, Bellanova e Bonetti.

È quindi legittimo chiedersi se le quote rosa, cioè una riserva di posti per le donne alla stregua di quanto avviene per i disabili nelle graduatorie degli aspiranti a posti di lavoro, non depotenzino la spinta naturale e spontanea volta da sempre a raggiungere la parità di genere; e se espongano le donne alle critiche di chi, ancora vittima di pregiudizi, le considera indebitamente avviate a cariche pubbliche che diversamente non potrebbero ottenere. Seguendo il medesimo criterio, si potrebbe prefigurare in futuro l’istituzione di quote nere a tutela degli immigrati nordafricani? O di “quote terrone” a favore dei meridionali? Il rispetto di tutte queste quote non inciderebbe negativamente sulla qualità delle rappresentanze elettive, già palesemente bassa? Un sistema elettorale che prevedesse le preferenze potrebbe contemplare tutte le quote che si vuole, ma alla fine la decisione finale spetterebbe agli elettori, sia pure con tutti i condizionamenti che ben conosciamo. Non sarebbe forse meglio che le donne percorressero con le proprie gambe anche quest’ultimo tratto di strada che le separa dalla piena parità? Sono domande alle quali molti avranno già pronta una risposta: consideriamole, dunque, come il famoso sasso scagliato nello stagno per vedere cosa succede.

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