Il fenomeno artistico del muralismo urbano è esploso negli ultimi anni in tutto il mondo. I centri storici delle città, ma soprattutto le periferie, sono le zone preferite dagli artisti che appartengono a questo movimento. Facciate cieche di edifici residenziali o strutture produttive ormai in disuso diventano immense tele dove opere monumentali (sia per le dimensioni che per il forte impatto visivo e cromatico) riescono a modificare il paesaggio urbano nel quale si inseriscono.
In passato questa forma d’arte è già stata alla ribalta della cronaca: il Muralismo messicano degli inizi del Novecento (politicizzato dal messaggio rivoluzionario) di Alfonso Siqueros e José Clemente Orozco oppure la stagione della Street Art americana di Jean Michel Basquiat e Keet Haring, nel ventennio ’70 e ’80 del secolo scorso. Venivano definiti in maniera dispregiativa writers (graffitari) ed esprimevano nelle loro opere disagio e ribellione contro la società conformista e conservatrice dell’America reaganiana.
In entrambi i movimenti citati gli artisti avevano deciso di abbandonare le dinamiche e le logiche del mercato della pittura commerciale per dare maggiore visibilità possibile al loro messaggio di protesta, trasformando i muri delle città in gallerie d’arte all’aperto. Il muralismo contemporaneo, essendo molto eterogeneo per tecniche e forme espressive (graffiti, poster, dipinti, stencil ecc.), sfugge alle definizioni classiche di movimento; una delle peculiarità è il dialogo e la collaborazione con le istituzioni. Infatti tante amministrazioni cittadine sono diventate i committenti maggiori di questi performer con il doppio scopo di combattere il degrado urbano e, concentrando molte opere in un determinato quartiere, creare nuove forme di turismo e attrazione.
Questo è il caso di Napoli: ognuna delle Municipalità può vantare opere di muralismo urbano di alcuni dei più importanti artisti a livello mondiale. Dall’irriverente Madonna con la pistola di Bansky nel centro storico, ai manifesti dipinti (ispirati all’arte rinascimentale) di Zîlda, sparsi per la città, dai 233 personaggi “onirici” dipinti di Cyop e Kaf (nell’ambito del progetto di riqualificazione dei Quartieri Spagnoli “quore spinato”), al provocatorio “Caravaggio col super santos”di Roxy in the box.
Come abbiamo visto, gli artisti usano firmarsi con nickname per nascondere la loro reale identità. Discorso diverso per l’argentino Francisco Bosoletti ed il napoletanissimo Jorit Agoch, due artisti che, abbandonando l’ironia e l’irriverenza tipiche del movimento, ed usando canoni espressivi realistici (vicini alle correnti del neorealismo sociale e dell’iperrealismo”) lanciano messaggi chiari e forti di propaganda. Propaganda non intesa nella accezione negativa novecentesca, usata dai regimi totalitari, ma come “azione intesa a conquistare il favore o l’adesione di un pubblico sempre più vasto mediante ogni mezzo idoneo a influire positivamente sulla psicologia collettiva e sul comportamento delle masse”. I personaggi raffigurati nelle loro opere, come i coreuti del teatro greco, ci raccontano una storia e ci invitano alla catarsi, alla purificazione delle passioni umane che solo la vera arte può farci comprendere e superare. Stesso fine per due artisti connotati però da una diversa cifra stilistica.
Bosoletti usa prevalentemente il bianco e nero (a volte in contrasto negativo), escamotage espressivo per aumentare l’attenzione sull’opera, definito “ricerca visiva”; una trappola sensoriale che fissa nella memoria un messaggio positivo: solidarietà, redenzione, identità. Tra le sue opere più importanti in città ricordiamo “Iside” ai Quartieri Spagnoli e “resisTIAmo” sulla facciata della chiesa di San Vincenzo alla Sanità.
Jorit adopera il colore e lo usa in maniera iperrealista: le sue opere ci appaiono cioè più reali della realtà stessa. Un fil rouge unisce tutti i personaggi ritratti (sulle mura di un kibbutz in Israele o su un palazzo di Forcella), un doppio segno rosso, inciso sulla faccia, che li identifica come appartenenti alla “tribù umana”: da “Pasolini” a “Maradona”, da “San Gennaro” a “Martin Luther King”, dalla magnifica “scugnizzella rom”, dipinta a Ponticelli, a “Yuri Gagarin”, dipinto a Mosca. Tutte le opere sembrano veicolare lo stesso messaggio: siamo tutti uguali, tutti fratelli e tutti possiamo aspirare a migliorare il mondo. Non importa se sei nato a Nairobi o a Scampia, l’importante è sentirsi parte del cambiamento che nasce, non dalla “lotta di classe”, ma dal singolo che si impegna per migliorare la comunità e migliorare se stesso.
Non è un caso che tanti artisti, così diversi per cultura e nazionalità, abbiamo scelto le mura dei palazzi di Napoli come supporto per le loro opere. Partenope è da sempre punto d’incontro per le genti, aperta alle novità pur se saldamente legata al suo passato millenario. Napoli come emblema del villaggio globale che include, che accoglie e che si lascia amare nelle sue eterne contraddizioni.