Il giorno 11 marzo è stato firmato tra Governo e Sindacati il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”. Dopo anni di immobilismo istituzionale e legislativo, riempito solo da annunci e promesse, pare che le Pubbliche Amministrazioni (PA) ritornino al centro dell’attenzione del Governo non più in termini di tagli, di riduzione di spesa, di riduzione del personale, di blocco della contrattazione, ma di rilancio, alla ricerca di nuovi livelli di efficienza e di efficacia. Una scelta obbligata anche perché considerata un prerequisito per accedere ai fondi del recovery plan ma non scontata nei contenuti, anche alla luce del cattivo presagio rappresentato dal ritorno alla direzione del dicastero dell’onorevole Brunetta, che fomentò una campagna contro i lavoratori pubblici e le organizzazioni sindacali.
L’intesa, non a caso subito sottoscritta dai segretari generali di CGIL CISL e UIL, mostra grandi aperture al riconoscimento del diritto al rinnovo del contratto di lavoro, al recupero di quote di salario da tempo “congelate”, alla valorizzazione di tante professionalità già presenti tra chi svolge il proprio lavoro alle dipendenze delle PA; riconosce la necessità di promuovere un processo di ricambio generazionale non solo sostituendo chi è andato o andrà in pensione, il turnover, ma si pone l’obiettivo di utilizzare questo strumento per accrescere ulteriormente i livelli di qualità professionale, consentendo l’accesso rapido di giovani con elevati livelli di scolarizzazione e con nuove professionalità fino ad oggi non previste negli uffici pubblici. Il Patto sottoscritto riconosce, per ora a parole, l’impegno profuso dai lavoratori pubblici in questo difficile anno in cui siamo tutti stati costretti nelle nostre case, promette una regolamentazione contrattuale più vasta e diffusa delle modalità operative del lavoro agile e tanto altro ancora.
Quello pubblico diventa ora il terreno per sperimentare nuove forme di concertazione con le organizzazioni sindacali, con i rappresentanti dei lavoratori, non più considerati un ostacolo ai processi di modernizzazione ma attori principali. Le organizzazioni sindacali hanno accettato la sfida. Qualche giornale ha riferito anche delle dichiarazioni del ministro Brunetta in cui si è profilata l’ipotesi di utilizzare la leva dell’incentivazione al pensionamento per consentire una accelerazione del processo di rinnovamento, ma è presto per capire se queste sono ipotesi o se ci sarà un reale investimento economico da parte del Governo per attivare questo strumento, già molte volte utilizzato nel settore privato, dalle banche ai grandi complessi industriali, per consentirne un riammodernamento. Infine nel Patto si è concordato anche per il settore pubblico il sostegno al welfare contrattuale. Il fenomeno del welfare aziendale in Italia ha compiuto un vero e proprio salto di qualità. L’ha fatto proprio nell’anno del coronavirus. Sulla spinta del Covid-19, nel pieno della pandemia, per rispondere alle esigenze di protezione, sicurezza, assistenza, formazione e conciliazione vita-lavoro dei propri dipendenti, le imprese hanno fatto ampiamente ricorso a misure di welfare aziendale. Il risultato è che, secondo l’ultima edizione del Welfare Index Pmi di Generali Italia del settembre 2020, “l’emergenza Covid ha impresso un salto di qualità al welfare aziendale: per la prima volta le imprese attive superano il 50%, il 79% ha confermato le iniziative di welfare in corso e il 28% ne ha introdotte di nuove o potenziato quelle esistenti”. Tutto ciò la dice lunga sulla preoccupazione di molti che temono che un simile istituto mangi spazio al servizio pubblico universalistico, in particolare in sanità, su questo va fatta non solo tanta attenzione ma vanno chiarite, man mano, le finalità del Welfare contrattuale.
Ci pare importante evidenziare che in fondo il Patto ricomincia da dove si era interrotto un processo iniziato con la contrattualizzazione del rapporto di lavoro nel settore pubblico, che in modo improprio viene, il più delle volte, indicato come privatizzazione, introdotto nel 1993. A tal proposito è opportuno fare un breve excursus storico su tale argomento. Il vero punto d’inizio della riforma delle PA sta a cavallo degli anni 90, per effetto della tangentopoli che travolse la Prima Repubblica, si produsse una corsa ad approvare, in pochi anni, una serie di provvedimenti legislativi. Una sorta di catarsi della politica che si chiamava fuori dalla gestione per affidarla ai tecnici, ritenuti più imparziali e meritevoli. Infatti nel 1993 col decreto legislativo n.29, noto come privatizzazione del pubblico impiego, si definì tale separazione o almeno avrebbe dovuto esser così. La rivoluzione era copernicana: modificava uno dei capisaldi della riforma Cavour del 1853, che considerava preminente l’atto politico sugli atti amministrativi. A ciascun ministro quindi, dal ‘93 si attribuiva solo l’attività d’indirizzo politico. In pochi mesi la classe politica approva una riforma, la cui rapidità sana decenni di dibattiti politici, cercando di emendarsi dal proprio peccato originale, oggetto di proteste e dell’attenzione dei Tribunali. Le riforme Bassanini dettero per scontato tale separazione e posero il problema di emendare anche l’insieme della macchina amministrativa, come volano di rilancio del Paese, forte degli indirizzi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), che indicava di superare gli ostacoli burocratici, tecnico-amministrativi che impediscono la libera circolazione delle merci. Infatti il nostro Paese si collocava al 53° posto su 168 nella classifica redatta dalla Banca Mondiale tra le nazioni capaci di produrre sviluppo.
Il principio di sussidiarietà verrà poi assunto con la riforma del titolo V della Costituzione, sia in forma verticale che orizzontale, nel tentativo di avvicinare il cittadino ad un apparato statale, lontano e impermeabile, attraverso un massiccio trasferimento di poteri e funzioni alla periferia. Cosa che ebbe perfino il plauso della stessa Conferenza Episcopale nel documento del 23 novembre 1999. Quasi in contemporanea al d.lgs n.29, con la legge 81/1993 viene approvata la normativa in tema di elezione diretta dei sindaci. ll d.lgs. n.150/2009 (riforma Brunetta) spinse l’acceleratore su valutazione e meritocrazia, ma subito dopo la manovra del luglio 2010 pose limiti economici alla contrattazione e limitò all’aspetto giuridico la valenza delle progressioni di carriera. Di fatto si annullò la leva incentivante nel suo risvolto economico e si creò inoltre nel pubblico impiego un clima non certo favorevole ad un maggior impegno. Nelle intenzioni, il d.lgs. n.150/2009 si proponeva di portare a compimento il processo di rinnovamento del lavoro pubblico (cui aveva dato inizio il d.lgs. n.29 nel lontano 1993) quantomeno in materia di organizzazione e di modernizzazione dei sistemi di valutazione dell’azione amministrativa e di incentivazione delle prestazioni lavorative, ispirandosi a metodologie ampiamente adottate nel settore privato. Mentre, al contrario, la parziale rilegificazione del rapporto di lavoro pubblico, operata dal decreto stesso tramite l’introduzione dell’obbligo di legge del rispetto di principi, limiti e regole in esso previsti e la contestuale sottrazione alla contrattazione collettiva di materie che il d.lgs. n.165/01 aveva in ultima istanza ad essa assegnato, costituì una brusca frenata al processo di privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico e produsse una forte divisione nel mondo del lavoro, alimentando la campagna denigratoria nei confronti del dipendente pubblico, additato come fannullone, orchestrata strumentalmente dalla stampa di destra.
Con il Patto di oggi si riaprono il confronto, con un nuovo percorso di rinnovamento, ma anche l’occasione di affrontare il nodo dei nodi, sempre più aggrovigliato, da 30 anni a questa parte, che è quello della dirigenza e la correttezza formale degli atti e loro reale efficacia, che ci riporta al conflitto di competenza. Con la pandemia si è invertita una tendenza culturale e politica e sempre più si chiede al settore pubblico, allo Stato, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, alle Autonomie regionali, ai Comuni, di investire in quantità e qualità per garantire salute, sicurezza e sviluppo. Per ora quanto proposto dal Governo e sottoscritto dai Sindacati riguarda ancora aspetti “interni” al sistema pubblico e poco si dice sugli obiettivi che si vogliono raggiungere. Non esistono organizzazioni perfette ma quelle più adeguate agli obiettivi che si vogliono conseguire. La sfida tutta da affrontare è proprio questa: riformare le PA per garantire servizi e sviluppo.