Molto spesso ci immaginiamo che il mondo dell’arte, soprattutto quella del Rinascimento e del Barocco, dedicata a committenti ecclesiastici, fosse un Parnaso dorato dove gli artisti, tra un madrigale ed un convivio, si dedicavano alla realizzazione delle loro opere eterne all’ombra del sacramento. Rileggendo le cronache dell’epoca però rimaniamo basiti nell’apprendere dell’esistenza di società segrete (formate dagli artisti stessi), che operavano con l’unico scopo di dirottare commesse ed intimidire concorrenti. Un esempio lampante è dato dalla “Cabala”, un famigerato triumvirato di pittori della città di Napoli che operò durante il primo periodo barocco dalla fine del primo decennio all’inizio del quarto del XVII secolo Era guidato dallo spagnolo Jusepe de Ribera, che si era stabilito a Napoli dopo essere fuggito dai creditori di Roma nel 1616, e comprendeva anche il napoletano Battistello Caracciolo e il greco Belisario Corenzio. Il suo obiettivo principale era impedire la concorrenza di artisti provenienti da altre parti d’Italia, in particolare dei più famosi maestri emiliani. I soprusi dell’organizzazione erano spesso rivolti contro i seguaci di Annibale Carracci in particolare ma anche contro qualsiasi artista non originario di Napoli. Le nefaste attività del triumvirato consistevano nell’istigare i pittori della città a molestare, espellere o avvelenare qualsiasi pittore non nativo, e si concluse solo con la morte di Caracciolo nel 1641.
Secondo lo storico dell’arte Bernardo de Dominici, nessuna grande commissione per l’arte a Napoli poteva essere eseguita senza il consenso dei tre pittori. Gli artisti che si ribellavano venivano perseguitati o minacciati di violenza e, spesso, i loro lavori in corso venivano distrutti o sabotati.
Molti artisti furono invitati a Napoli per decorare la Cappella del tesoro nel Duomo di Napoli, la Cappella che onora san Gennaro ed è considerata il sancta sanctorum della città. La nascita della Cappella del tesoro è legata agli anni difficili che visse Napoli durante il XVI secolo, caratterizzato per l’appunto da conflitti oltre confine ed interni, crisi di pestilenza ed eruzioni vulcaniche. A seguito di questi eventi il popolo napoletano decise di rivolgersi al proprio santo protettore facendo voto di erigergli una nuova e più bella cappella nel Duomo per conservare le sue reliquie e quelle degli altri 51 santi protettori della città. L’impegno fu assunto solennemente e, per dare ancora più valenza al voto, i napoletani redassero il documento, sottoscritto dagli “eletti di città”, davanti a un notaio, sull’altare maggiore della cattedrale con pubblico istrumento rogato da notar Vincenzo de Bossis.
Il 5 febbraio del 1601, gli “eletti della città” nominarono una commissione laica di dodici membri, denominata “Deputazione”, composta da due rappresentanti per ognuno dei seggi cittadini a cui venne affidato il compito di promuovere e curare la costruzione e la decorazione della nuova Cappella di San Gennaro.
Artisti di “grido” tra cui Annibale Carracci, il Cavalier d’Arpino e Guido Reni accettarono l’invito a lavorare alla cappella. Alla notizia che i lavori di decorazione erano stati affidati a pittori non del posto fu tale il risentimento dell’organizzazione, che vedeva come un affronto il fatto, che iniziò una escalation di violenza. Tutti i pittori chiamati a lavorare trovarono Napoli inospitale. Nel 1621 l’assistente di Reni fu ferito così gravemente che tornò a Roma. Belisario Corenzio fu arrestato come sospettato del delitto, ma rilasciato per insufficienza di prove. Carracci fu talmente diffamato che non solo perse la committenza ma non riuscì a ottenere nessun’altra commissione in città. Gli artisti incaricati furono scacciati a causa della gelosia e del risentimento della Cabala per l’intrusione di estranei a lavorare su un progetto così importante.
I Deputati della congregazione, committenti dell’opera, visto che i lavori non procedevano spediti, formarono allora una commissione d’inchiesta per indagare su queste ingerenze e vessazioni. “La Santafede”, questo fu il nome scelto per gli inquirenti. I risultati della indagine non convinsero i Deputati che ci fosse effettivamente la mano della Cabala dietro gli attentati e i ritardi d’opera. Alla fine assunsero uno degli stessi componenti della Cabala, Belisario Corenzio. Ma alle prime prove di saggio e dopo la stesura di diverse parti di affresco il lavoro del Corenzio non piacque ai committenti che inviarono una lettera al Domenichino, chiedendo i suoi servizi. Il 23 marzo 1630 Domenichino accettò, sebbene sua moglie avesse tentato di dissuaderlo dal recarsi a Napoli. Si trasferì a Napoli in novembre. Non molto tempo dopo il suo arrivo, ricevette una minaccia di morte che lo avvertiva di abbandonare il lavoro. L’artista chiese protezione al viceré di Napoli e, nonostante le rassicurazioni e la scorta concessegli, raramente lasciò la sua casa se non per lavorare nella Cappella o nella scuola che aveva aperto. Spesso arrivava sul cantiere per scoprire che il lavoro della notte precedente era stato cancellato. Fu così tormentato dalla Cabala che nel 1634 fuggì a Frascati, non ancora terminata la commissione, e divenne ospite della famiglia Aldobrandini. I rappresentanti del Duomo di Napoli, che lo avevano ingaggiato, si prodigarono per convincerlo a tornare e si rivolsero al governo spagnolo. Il viceré fece arrestare la moglie e la figlia, che erano rimaste a Napoli, e sequestrò i suoi beni. Domenichino tornò a Napoli nel 1635 per continuare i suoi lavori nella cattedrale, ma ormai non aveva più il favore o la protezione del viceré. Sua moglie e sua figlia furono rilasciate al suo ritorno. Nel 1637 accettò una commissione ridotta per nove affreschi per la Cappella e nel 1640 ricevette il pagamento per un’opera sul martirio di san Gennaro. Secondo le annotazioni del diario di Giovanni Battista Passeri (storico contemporaneo dei fatti narrati), Domenichino temeva che i suoi pasti potessero essere avvelenati o che potesse essere accoltellato. Il 3 aprile 1641 scrisse un testamento; morì il 15 aprile dopo diversi giorni di malattia. La sua vedova era convinta che fosse stato avvelenato per mano della Cabala.
Il ciclo di affreschi quindi fu affidato al pittore Lanfranco e fu portato a termine solo dopo la mediazione tra i deputati della Cappella e i tre rappresentanti della Cabala (Ribera, Corenzio, Caracciolo), ai quali fu affidato l’incarico di decorare gli altari.
La storiografia contemporanea, soprattutto dopo gli studi effettuati da Benedetto Croce sullo storico de Dominici, tende a smentire o quanto meno limitare la veridicità di tali accadimenti. Tuttavia alla luce dei ritrovati atti giudiziari a carico dei membri della Cabala e delle numerose testimonianze dei vari contemporanei non sembra inverosimile la realtà effettiva di questa confraternita diremmo “mafiosa ante litteram”.