Le immagini dei migranti al confine con la Bosnia-Erzegovina, camminando nella neve, a piedi scalzi e con gli abiti lacerati, non appartengono al passato. Non siamo negli anni ’90. Non è in atto nessuna guerra nei Balcani e non esiste più la Jugoslavia.
Siamo nel 2021, l’era del progresso e della tecnologia, delle democrazie europee e dei valori di solidarietà. Eppure, tutto traspare da quelle immagini meno che progresso. Disperazione, questa sì. Caparbietà, stanchezza, timore, dolore.
Pochi mesi dopo il nuovo “Patto europeo sulla migrazione e l’asilo”, migranti e richiedenti asilo si sono trovati ad attraversare la rotta balcanica e ad essere bloccati nei campi profughi in condizioni inumane. In particolare il campo di Lipa, al confine con la Croazia, andato a fuoco il 23 dicembre scorso, accoglie più di 900 richiedenti asilo ed è stato oggetto di denunce da parte di numerose organizzazioni internazionali a causa della mancanza di condizioni igieniche adeguate, assenza di acqua corrente ed elettricità, sovraffollamento, assenza di vestiti e di coperte che possano proteggere dal gelo dei -20° dell’inverno bosniaco.
Amnesty international, Jesuit refugee service europe, Médecins du monde Belgique e Refugee rights Europe hanno fatto una dichiarazione congiunta chiedendo “un’azione immediata per risolvere la crisi umanitaria in corso in Bosnia-Erzegovina ed individuare soluzioni istituzionali di lungo periodo per venire incontro alle necessità delle persone che transitano attraverso lo Stato balcanico”. Ad arrivare in soccorso dei migranti sono quasi esclusivamente volontari della Croce Rossa e della Caritas. Le istituzioni si perdono in procedure burocratiche non al passo con la catastrofe umanitaria in corso, nel cuore della “moderna e civile Europa”.
Ma come si è arrivati fino a questo punto? A settembre scorso l’Unione Europea, dopo la tragedia del campo di Moria, sull’isola di Lesbo, ha dato vita al nuovo “Patto europeo sulla migrazione e l’asilo”, una riforma che doveva correggere il precedente sistema di Dublino. Il nuovo Patto ha modificato le regole per la gestione dei flussi migratori in entrata: controlli più rigidi alle frontiere esterne, procedure abbreviate per l’esame delle domande d’asilo che non devono superare le 12 settimane, partenariati con i Paesi d’origine per il rimpatrio dei migranti in caso di parere negativo, registrazione nella base dati EURODAC.
Riguardo invece la tutela dei richiedenti asilo, il Patto istituisce un meccanismo di supervisione indipendente per garantire l’osservanza dei diritti fondamentali e uno status temporaneo di protezione per coloro che nel proprio Paese d’origine sono esposti ad elevati rischi di violenza per persecuzioni, tortura o conflitti armati. Con ciò il Patto si rifa a convenzioni internazionali come la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura o altri trattamenti crudeli, inumani e degradanti” del 1984 e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Oltre alle rotte del Mediterraneo, però, la rotta balcanica è la principale arteria di migrazioni dal Medio Oriente all’Europa. In gran parte i migranti arrivati in Bosnia-Erzegovina sono originari di Pakistan, Afghanistan e Bangladesh. L’UE ha dato alla Bosnia-Erzegovina più di 88 milioni di euro, proprio per gestire la crisi migratoria, ma le strutture adeguate per accogliere i migranti non sono mai arrivate. Non c’è stata una risposta compatta dal punto di vista strutturale da parte delle autorità locali del Paese. Intanto, l’Unione Europea ha dichiarato che, se la Bosnia-Erzegovina non dovesse trovare una soluzione per risolvere questa grave crisi umanitaria in atto, anche le sue aspirazioni ad entrare a far parte dell’UE saranno riviste.
Molti dei richiedenti asilo, disperati, stanno cercando ora di spostarsi ad est, verso la Serbia, per poi arrivare in Romania e dunque in Europa: al confine con la Croazia il respingimento dei richiedenti asilo è stato così violento e brutale da far decidere a molti di cambiare modalità d’accesso in Europa.
Secondo il diritto internazionale e secondo lo stesso “Patto europeo sulla migrazione e l’asilo”, bisogna rispettare il principio di non-refoulement, uno dei cardini della Convenzione di Ginevra, ossia “l’obbligo di non trasferimento, diretto o indiretto, di un rifugiato o di un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbe in pericolo a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche.” Se è vero che questo principio vale dunque per motivi prettamente politici e religiosi, è pur vero che per tutto il periodo di richiesta d’asilo, finché quest’ultima non sarà portata a termine, il divieto di respingimento deve continuare ad essere rispettato. Ci si chiede, dunque, perché questo principio non venga esteso e fatto rigidamente rispettare in qualsiasi Stato appartenente all’UE e che si dichiari democratico.
Intanto, nel gelo dell’inverno balcanico, tra la neve, i migranti continuano a camminare a piedi scalzi e a fare file lunghissime per un pasto offerto dalla Croce Rossa, bevendo acqua non potabile dai tubi del terreno, con i propri vestiti in buste della spazzatura.
Primo Levi scriveva “Se questo è un uomo, che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no…”, ed oggi è lacerante dover ammettere che quei versi struggenti sono più attuali che mai.