Com’è noto, Twitter e Facebook hanno sospeso giorni fa l’account di Trump per bloccare la sua provocatoria resistenza all’esito elettorale che ha decretato la sua sconfitta. Qualche giorno dopo qui da noi Twitter ha oscurato temporaneamente la pagina on-line del quotidiano Libero.
Al di là della sproporzione tra i due eventi, il secondo dei quali si è poi saputo dipendere solo da misure prudenziali adottate per temuto hackeraggio, entrambi gli avvenimenti hanno provocato una levata di scudi sia contro il potere illimitato dei social che contro l’attentato alla libertà di espressione.
Si tratta di temi oggi essenziali che meritano, e spesso ricevono, la dovuta attenzione da parte di giuristi, sociologi e studiosi in generale. Tuttavia qualche osservazione di puro buon senso deve essere consentita anche a chi è semplicemente allarmato.
Soffermandoci in particolare sulla seconda tematica, la reazione comune a quanti si sentono colpiti da ogni restrizione è quella di denunciare il tradimento della libertà di espressione, tirando giustamente in ballo la celebre affermazione attribuita forse arbitrariamente (troppo retorica per un illuminista?) a Voltaire: “Non condivido quel che dici, ma darei la vita perché tu possa dirlo”.
Che tale nobile evocazione venga poi strumentalizzata da chi abusa della libertà di espressione per spacciare notizie false e lontane dalla realtà è abbastanza fastidioso. E comunque la diffusione di informazioni aberranti e di fake news ha conseguenze gravi e talvolta gravissime; basti pensare, oltre che agli appelli sediziosi del recalcitrante Trump, causa di ben cinque morti, alle campagne no-vax e no-covid che di morti ne hanno causato molti di più.
Non suoni quindi reazionario sostenere che la libertà assoluta di espressione può produrre disastri. L’esempio più calzante di quanto asserito sono i due episodi di feroce vendetta islamica che hanno fatto seguito alla pubblicazione sul giornale satirico parigino Charlie Hebdo, nel 2015 e poi nel 2020, di vignette ritenute sacrileghe dai devoti di Allah. Fare dell’umorismo su argomenti religiosi non piace a molti credenti, ma nell’occidente cristiano la cosa viene tollerata e suscita al massimo qualche protesta indignata da parte dei fedeli più ortodossi ai quali bisognerebbe far notare che, se Dio è perfetto, deve possedere tutte le qualità e tra queste non mancherà certo il senso dell’umorismo: al massimo, quindi, disdegnerà le battute di cattivo gusto, come qualunque mortale di buona educazione.
Provocazioni a parte, la realtà è che spesso le parole e le immagini sono come pietre e prima di lanciarle bisognerebbe guardare se possano colpire qualcuno creando dolore, sofferenza e magari reazioni violente.
Nella sua rubrica sul supplemento “D” di Repubblica dello scorso 28 novembre, Umberto Galimberti, rispondendo a un lettore che gli chiedeva un parere a proposito della improvvida vignetta satirica pubblicata da Charlie Hebdo, causa dell’ennesima aggressione mortale di matrice islamica, sosteneva che “per difendere i nostri valori occidentali non è necessario ironizzare sulle religioni degli altri senza farsi carico delle conseguenze”, citando in proposito affermazioni estratte dalla filosofia kantiana. Quindi vignette satiriche sì, ma se si teme che possano suscitare reazioni, o evitiamo di pubblicarle o ne accettiamo le conseguenze.
Un interrogativo analogo si pone spesso circa l’influenza che storie di criminalità, come ad esempio la serie televisiva “Gomorra”, possono avere sul pubblico. Il dibattito verte in particolare sulla possibilità che adolescenti o anche giovani socialmente disadattati o psichicamente deboli si identifichino con figure criminali più o meno carismatiche. I fatti di cronaca hanno dimostrato che l’ipotesi non è affatto campata in aria: qualcosa di simile alla mitizzazione di Scarface, dopo il famoso film con Al Pacino da parte di criminali che ne hanno copiato gli atteggiamenti, l’abbigliamento e anche l’arredamento “kitsch”. Risulta dunque evidente che la libertà assoluta, mentre rappresenta per la parte più evoluta della comunità un principio irrinunciabile, può costituire per le parte più sprovveduta ed emarginata una vetrina di cattivi esempi e di legittimazione di comportamenti delinquenziali che possono sfociare in situazioni più o meno rischiose per l’intera comunità.
E allora, se si accoglie il richiamo di Galimberti alla responsabilità individuale, si può concludere che l’esercizio della libertà di espressione riguarda i singoli: in altre parole, il principio può rimanere intatto solo demandando alla coscienza dei singoli il compito di autocensurarsi. Ciò presuppone che l’istruzione, la scuola e tutto il resto concorrano ad allargare la schiera di chi è in grado di valutare se e quando autolimitarsi. Programma chimerico e comunque a troppo lunga scadenza.
Ma intanto quanti danni provocheranno ancora la disinformazione e la controinformazione? Sarà possibile mettere in tempi non biblici le fasce culturalmente più deboli della società in condizioni di poter distinguere tra le notizie vere e le fake news?
La risposta, malgrado se ne parli da tempo nelle sedi più allarmate, è che la strada per contrastare la diffusione di menzogne, se c’è, sarà lunga e tortuosa: si creeranno le condizioni politiche internazionali per promuovere iniziative comuni finalizzate a questo scopo? Con quali strumenti queste iniziative saranno messe in atto? Quale ente o struttura sovranazionale dovrebbe valutare la veridicità delle notizie o la loro infondatezza e pericolosità? E con quale metro di giudizio?
Difronte a questi interrogativi sembra inevitabile ricorrere all’oscuramento dei social e di tutti gli altri media sospetti, come si fa nei regimi totalitari. Quindi, per poter agire, è necessario instaurare un regime? La circostanza tra l’altro qui da noi non è un’ipotesi astratta: l’affermazione della destra sovranista potrebbe portarci in condizioni non diverse da quelle dell’Ungheria di Orban. Ebbene, se per distruggere le fake news bisogna dar vita ad un regime totalitario che, come abbiamo sperimentato e sperimentiamo tuttora, è il peggior diffusore di notizie false, dobbiamo concludere che la libertà di espressione è in serio pericolo. Auguriamoci di sbagliare.