Circola tuttora sulla scena politica un personaggio che dovrebbe averla abbandonata da un bel pezzo. Un po’ perché l’aveva promesso lui stesso ove mai il “suo” referendum costituzionale non fosse passato, come poi avvenne il 4 dicembre del 2016, ma soprattutto perché rappresenta una mina vagante e, come tale, un costante rischio latente.
Matteo Renzi, che sembrava l’astro nascente della sinistra quando, dopo un ambiguo “Stai sereno!”, infilzò il povero Enrico Letta soffiandogli la carica di premier, si è rivelato invece un autentico flop. Non appena al governo, il nostro golden boy elargisce, col pretesto del rilancio dei consumi, 80 euro mensili a milioni di italiani, poveri esclusi, incassando poi un cospicuo dividendo: il 40% alle successive elezioni europee. Sulle ali del successo Renzi mette subito mano all’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e ci riesce ridimensionando anche il ruolo dei sindacati. Il tutto in un clima euforico di generale rinnovamento delle istituzioni, Costituzione e legge elettorale comprese. L’entusiasmo per il trionfo conseguito alle europee comincia però a dargli alla testa: concepisce una riforma elettorale che attribuisce la maggioranza parlamentare al partito che raggiunge il 35% dei consensi, cioè al suo che ha il vento in poppa. Solo la prudenza di parte dei vertici del PD impedisce che questo salto nel buio diventi legge: se fosse passata, oggi saremmo forse governati dal M5s in solitaria, situazione appena un po’ meno scoraggiante di quella patita col governo giallo-verde.
L’ascesa di Renzi finisce con la bocciatura della riforma costituzionale a seguito del referendum popolare, da lui stesso personalizzato, con grande presunzione, convinto della potenza del suo carisma. La bocciatura, dovuta alle tante incoerenze presenti nella riforma ma soprattutto agli effetti pericolosi che potevano nascere se incrociata con la legge elettorale maggioritaria, rappresenta il crinale sul quale si schianta la figura politica rampante di Renzi per generare quella del guastatore.
Alle elezioni politiche del 2018 il PD condotto ancora da Renzi, che si era guardato bene dal ritirarsi, prende un misero (e inedito) 19%. Approdato comunque al Senato, Renzi ritiene di avere ancora un futuro (la giovane età lo autorizza), benché nel frattempo la guida del PD sia passata a Zingaretti. Questo futuro si concretizza in un altro clamoroso errore di valutazione. Infatti, pur avendo dovuto lasciare la direzione del PD, Renzi ha fatto eleggere in Parlamento un numero cospicuo di suoi fedelissimi, capace di condizionarne le scelte. Non è dato sapere per quale oscuro disegno politico Renzi si opponga pubblicamente alla nascita di un governo M5s – PD contribuendo a gettare sciaguratamente i grillini nelle grinfie della Lega, con le conseguenze nefaste che stiamo ancora pagando, benché ridimensionate dall’uscita infelice dell’altro Matteo nell’agosto 2019. Fino a quella data la presenza di Renzi nel PD, da lui stesso costretto all’opposizione, è abbastanza incolore.
Ma con la caduta del primo Governo Conte ecco riaffacciarsi il volto sbarazzino di Renzi: mentre Zingaretti sembra orientato verso le elezioni anticipate, Renzi, forte del pacchetto di senatori e deputati ai suoi ordini, vira improvvisamente verso un governo giallo-rosso. In pratica, ciò che ha impedito nel marzo 2018 diventa necessario nel settembre 2019. Un ripensamento tardivo? Forse, ma il ritardo ha creato un “mostro”: la Lega di Salvini oltre il 35% nei sondaggi. In realtà la retromarcia clamorosa di Renzi appare parte di un programma più ambizioso: all’indomani dell’insediamento del secondo Governo Conte, nel quale siedono anche alcuni ministri a lui devoti, Renzi fonda Italia Viva e si porta dietro un bel po’ di parlamentari lasciando nel PD Marcucci e Lotti. Lo scopo non dichiarato sembra quello di agganciare elettori (e, nell’immediato, forse anche parlamentari) di Forza Italia per formare un bel partito di centro che, in presenza della prospettata riforma della legge elettorale in senso proporzionalista, gli permetterà di essere l’ago della bilancia nel prossimo Parlamento se non addirittura in quello in carica. La cosa peraltro non deve sorprendere perché Renzi non si è mai dimostrato “di sinistra”. E la sua ricerca del centro non è altro che lo specchio della sua mancanza di una visione, di un programma. Più volte Pierluigi Bersani, interrogato in tv su quale fosse il programma di Renzi, ha candidamente risposto: “Il programma di Renzi è Renzi”.
Ma il progetto di intercettare i voti moderati urta contro l’aritmetica: i sondaggi danno sin dall’inizio Italia Viva tra il 4% e il 3% ed oggi stabilmente intorno al 3%, addirittura un po’ meno di quanto riconoscono ad Azione, movimento fondato da Calenda col medesimo obbiettivo. Da questo momento in poi Italia Viva non fa che ostacolare di fatto l’attività del Governo frenandone l’espansione del consenso che pure meriterebbe, non fosse altro che per gli inimmaginabili finanziamenti ottenuto dall’Europa col sostegno di Gentiloni e Sassoli, ex compagni di partito di Renzi.
Oggi il suo comportamento è quello di chi cerca disperatamente l’ultima chance. E in questa ricerca si mostra molto disinvolto, annunciando a giorni alterni di ritirare i “suoi” ministri e quindi la fiducia di Italia Viva al Governo nel momento cruciale della messa a punto del programma economico più imponente degli ultimi settant’anni. La stranezza dei suoi comportamenti risulta evidente perché le sue obiezioni e le sue proposte non passano per una preventiva discussione nel Consiglio dei ministri ma nascono così, all’improvviso, un po’ come le posizioni estemporanee e contraddittorie sopra ricordate. L’assenza di attenzione nei confronti di un Paese provato dalla pandemia, minacciato dalla possibile e comprensibile protesta sociale, svuota quindi il tatticismo estenuante di Renzi da qualunque contenuto politico e lo lascia nudo agli occhi di tutti con la sua pochezza anche morale. Gli unici che sembrano non vederlo sono i suoi ineffabili colleghi di partito. Come sudditi fedeli, si prestano supinamente ai suoi schemi da allenatore di provincia e non si capisce perché. Forse per il sentimento di gratitudine che provano nei suoi confronti personaggi come la Bellanova, sindacalista della Federbraccianti con una lunga esperienza politica nell’Ulivo e nel PD, promossa da Renzi al ruolo di sottosegretario al lavoro, di viceministro dello sviluppo economico e poi a quello attuale di ministro delle politiche agrarie. O come la Boschi, cui fu affidata la stesura di quella cosuccia chiamata riforma di una quarantina di articoli della Costituzione, compito senz’altro più impegnativo della riforma elettorale elaborata da Rosati. Cosa si aspettano i suoi corifei da un politico ormai in caduta libera di credibilità ma ancora convinto di poter raggiungere “il potere”?
Ancora una volta Elio Mottola non si smentisce. Ho letto una ricostruzione della parabola di Renzi scritta con maestria e acume. Ne condivido parola per parola. Leggere le sue analisi dei fatti è sempre un esercizio gratificante. Grazie!
Ho sempre ritenuto questo “uomo solo al comando” un pericolo per l’Italia.