El Diego: il mio ricordo

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Il murale di Jorit a Napoli

Fiumi di parole sono stati versati, e per lungo tempo lo saranno ancora, non sono dunque il primo né sarò l’ultimo a parlare di lui; la mia non vuole essere un’analisi sociologica né tantomeno tecnica, ma semplicemente il ricordo personale di un uomo che ci ha regalato soddisfazioni ed emozioni, ben oltre la passione sportiva, che difficilmente, forse, torneremo a provare.

Già prima del fatidico 5 luglio 1984, giorno della sua presentazione show al San Paolo, passeggiando un sabato sera con amici per via Toledo, vedevamo una certa agitazione fra i passanti e voci che si rincorrevano: “Guagliù, l’avimmo pigliato? È ‘o nuosto? Mo vene overamente?”. Capimmo che eravamo ad un passo dal grande colpo, il presidente Ferlaino stava per regalare alla squadra un calciatore dal talento inarrivabile, pur giovanissimo già un mito, ma a noi tifosi e non, comunque napoletani, donava la speranza nella possibilità di veder avverare un sogno, qualcosa che in sessant’anni di storia non si era mai realizzato, neanche quando, negli anni ’60, erano arrivati insieme due incredibili campioni, Sivori ed Altafini, che però erano già nella curva discendente della loro carriera. La notizia sarebbe stata confermata a breve da giornali e televisione. Colui che si avviava a diventare il più grande calciatore di tutti i tempi era nostro, del Napoli, di Napoli, città bistrattata e vilipesa, reduce da colera e terremoto. Sento molto parlare in queste ore di “riscatto sociale” che la nostra città avrebbe raggiunto grazie alle sue imprese, e mi piacerebbe che fosse davvero così; purtroppo temo che le preclusioni e i pregiudizi che c’erano prima nei confronti del sud persistano ancora, e molto mi addolora leggere il giudizio del direttore di un giornale del nord, del quale ben conosciamo il modo di pensare, gli atteggiamenti provocatori e le vicende giudiziarie, il quale definisce Maradona “drogato, violento con le donne e comunista” (e forse è quest’ultimo aspetto a dargli più fastidio!).

Dunque, non volendo, ripeto, fare analisi sociologiche, mi concentrerò sul lato umano. Vederlo in campo era una gioia assoluta, un misto di tre “A”: Allegria, Ammirazione e Adrenalina; qualcosa che ti prendeva dentro e che ti faceva, per un attimo lungo novanta minuti, abbandonare pensieri tristi, problemi ed angosce; le sue giocate erano lampi di genio che illuminavano i compagni ed a cui seguivano i tuoni degli applausi e dell’agitarsi sulle gradinate che facevano vibrare i sismografi. Le traiettorie dei suoi tiri, come qualcuno ha detto, erano inspiegabili con le leggi della Fisica; i suoi goal, in special modo quelli su punizione, erano qualcosa di mai visto prima che ti spingevano ad esultare ed abbracciarti col vicino anche se perfetto sconosciuto. E le emozioni non finivano con la partita, perché il lunedì successivo (allora si giocava solo di domenica pomeriggio perché il Calcio non era stato ancora del tutto fagocitato dai diritti televisivi, bei tempi) c’erano i commenti in Ufficio! In quel periodo lavoravo al Comune di Napoli dove si sa, all’epoca, con più dipendenti rispetto al reale fabbisogno, non si era proprio oberati di lavoro e quindi facilmente si riusciva a trovare qualche minuto, dopo la firma di ingresso e dopo il caffè, per dare una sbirciatina al giornale sportivo che uno comprava e che venti leggevano, ed ecco quindi che partiva una ridda di opinioni e ripassi mentali delle azioni viste, dei goal, dei mancati rigori e dell’operato arbitrale; era quello un bel modo di socializzare e fare gruppo, infatti lo ricordo come uno dei periodi più belli della mia vita…poi però ci si metteva al lavoro eh? Giuro!

Un campione indiscutibile, una tecnica ineguagliabile, un faro per i compagni di squadra, un giocatore leale ed onesto per gli avversari, un carattere… e qui si apre un altro discorso. Quante volte in ritardo o assente agli allenamenti, quante bizze, magari atteggiamenti da primadonna o contrasti coi dirigenti! A volte perdonati, a volte giustificati, altre no. L’amore di chi gli ha voluto bene lo ha sempre difeso, l’acredine e il perbenismo di chi non lo ha amato invece no. Quanti gli hanno rinfacciato le sue debolezze, le dipendenze, il sesso, la droga! Ma pensiamo ad un ragazzo di ventiquattro anni, bello, pieno di vita, dal tocco magico, nato e cresciuto nella miseria della periferia di una megalopoli, che già da bambino predestinato affermava di avere due desideri: giocare la Coppa del Mondo e vincerla, un ragazzo che viene da subito osannato come un re, un dio sulla Terra, che ha il mondo ai suoi piedi, che non ha bisogno di cercare una ragazza perché ce ne sono mille in fila disposte a tutto, che viene ammaliato dalle sirene tentatrici e tentacolari di una città bellissima, sanguigna e dannata, dove le false amicizie ti accarezzano per catturarti l’anima offrendoti quei paradisi artificiali che ti promettono sensazioni in grado di portarti oltre tutto quello che hai già, la ricchezza, il successo, la bella vita, le macchine di lusso, il sesso! Proviamo ad immaginare quanto avrà sofferto sentendo la scimmia dentro di lui che lo dilaniava allontanandolo dagli affetti e domandiamoci, in tutta coscienza, se veramente possiamo dire: “Io non ci sarei cascato”. Non è stato il primo e non sarà l’ultimo esempio di genio e sregolatezza, penso a tanti altri grandi della storia che hanno bruciato la loro vita, penso a Caravaggio, a Modigliani, a Oscar Wilde, a Pasolini, a Jimi Hendrix, o a George Best per restare in ambito calcistico. Maradona è stato un uomo, con tutte le fragilità di un uomo, ma non ha mai negato il suo problema, ne aveva piena coscienza e ne faceva un fatto pubblico al punto da chiedersi, durante l’intervista nel film di Kusturica: “Che giocatore sarei stato se non avessi tirato coca?!”; cioè … il calciatore più grande di tutti i tempi prende coscienza del fatto che avrebbe potuto essere ancora più grande, se non avesse ceduto alle lusinghe della droga?! Per me è il massimo! E poi ha saputo capire che un’altra strada doveva esserci, quando aveva deciso di venirne fuori perché lo doveva alle sue figlie e avrebbe dovuto provarci in ogni modo; non sappiamo se ci sia riuscito appieno, fatto sta che il fisico ha accumulato eccessi e sofferenze ed alla fine anche uno stato di depressione dovuto alla paura del Covid.

Un uomo dalle passioni forti anche politiche, argentino fino al midollo ma anche napoletano nell’anima perché era stato conquistato dalla nostra città che lui amava in maniera viscerale; sempre schierato a sinistra come sinistro era il suo piede favorito, simpatizzante ed amico di leader politici come Castro, Chavez e Morales, aveva tatuato la famosa immagine del “Che”, quell’icona mondiale nell’immaginario collettivo alla quale presto, credo, si affiancherà la sua immagine iconica, quella da guerriero già ritratta nel murales di Jorit. Nel campionato mondiale del 1986 guidò la sua Argentina alla vittoria finale, superando nei quarti l’Inghilterra e quale poteva essere una soddisfazione maggiore, prendersi una rivincita sportiva nei confronti della nazione che qualche anno prima li aveva sconfitti nella guerra delle Falkland! (A beneficio dei più giovani dirò che quella della Falkland o Malvinas fu una guerra di aggressione intrapresa dalla dittatura argentina, per guadagnare consenso popolare, contro la Gran Bretagna che ne aveva il controllo, ma che invece segnò proprio l’inizio della fine della dittatura militare). E non solo è da ricordare la vittoria della partita che avrebbe spianato la strada alla conquista del titolo, ma il modo in cui fu conseguita: nel giro di cinque minuti il famoso goal di mano che ingannò l’arbitro, la “mano de Dios”, e poi quello che viene unanimemente riconosciuto come il goal del secolo, una sgroppata iniziata nella metà campo avversaria e conclusa in rete dopo aver dribblato sei avversari. Beffati e battuti, se non è vendetta questa…

Diego Armando Maradona ha lasciato lo stadio terrestre il 25 novembre, così come il 25 novembre del 2005 fece George Best, altro immenso talento calcistico del quale mi piace riportare testualmente una frase che la dice tutta su chi fosse: “Ho speso un sacco di soldi per alcol, donne e macchine veloci… Tutti gli altri li ho sperperati”; e così come il suo amico Fidel Castro morto il 25 settembre del 2016; tre grandi accomunati dalla data del decesso, coincidenza!

Che cosa ci rimane di Diego? Forse potremmo chiederlo a tanti ragazzi con meno di trent’anni, che non hanno provato il piacere impagabile di vederlo in campo, ma che sanno benissimo chi è stato avendolo conosciuto grazie alle videocassette ed ai racconti che noi giovani di una volta gli abbiamo trasmesso. E poi sarà sempre in mezzo a noi, nelle strade coi suoi murales, con gli altarini dove si venerano il “sacro capello di Maradona” o le “lacrime di Berlusconi”, vere e proprie edicole votive, o nelle case e nei bassi dove a fianco delle vecchie immagini di San Gennaro, del Dottor Moscati, di Kennedy o di Papa Giovanni XXIII è già presente la sua immagine. Ci resteranno, probabilmente, non il riscatto sociale di cui tanto si parla e, realisticamente, ancora di là da venire, ma di sicuro la gioia, le emozioni e i brividi di piacere che ci trasmetteva quando si giocava contro il Milan o la Juve, quelle emozioni che un altro grande, Luciano De Crescenzo, ha saputo così bene descrivere con tutta la sua arte: “ ‘na finta ‘e Maradona…squaglia ‘o sanghe dint’ ‘e vene. E chest’ è!”

Addio Diego, e grazie! Però ora che sei lassù non dimenticare di restituire al “Barba”, come tu chiamavi Dio, la mano che ti prestò in quella indimenticabile partita!

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