Il 23 novembre è la ricorrenza di un evento drammatico, il terremoto del 1980 che colpì l’Irpinia e non solo. Ogni tragedia, per quanto collettiva, segna le singole persone in modo particolarissimo. Ognuno ha il suo ricordo di quella sera di quarant’anni anni fa quando la terra tremò scuotendo le case, le strade, i ponti che crollarono come fuscelli uccidendo quasi 3000 persone. Vogliamo raccontare una nostra personale esperienza. Perché la storia non è fatta di cifre, di freddi elenchi di morti e sopravvissuti, ma di tante singole e parziali storie connesse tra loro. Quella sera della domenica del 23 novembre del 1980 non eravamo a Napoli ma in uno di quei lunghissimi, lentissimi, treni che facevano la spola da nord a sud d’Italia, seguendo, accompagnando quello straordinario rimescolamento delle popolazioni italiane quale fu, per lunghi anni, la migrazione di tanti meridionali verso le fabbriche del nord. Venivamo da Torino, da una città ferita per la sconfitta inferta al movimento sindacale della FIAT. Era la nostra prima riunione nazionale da operaio vero e non più da studente politicizzato o da quadro dirigente di un partito. Quell’essere operaio in tuta blu, essere operaio che studiava all’università, che partecipava alle riunioni politiche, ci rendeva orgogliosi per l’indipendenza economica conquistata, per il sentirci fisicamente parte della classe operaia appagando il nostro ideale culturale e politico. In una delle tante stazioni disseminate lungo il percorso, uno sconosciuto aprì con violenza le porte dello scompartimento dove dormivamo accampati alla meglio. Accese la luce e ci chiese: “Siete di Napoli, e come fate a dormire? C’è stato il terremoto, dicono che l’epicentro è a Fuorigrotta, a Napoli”. Fu un tormento. Ad ogni stazione tutto il treno si precipitava ai telefoni pubblici disposti lungo i binari. Una lunga attesa interrotta dal fischio del capotreno che annunciava che il viaggio continuava. Avremmo riprovato alla stazione successiva. Intanto le informazioni si diffondevano, contraddittorie, drammatiche senza nessuna possibilità di verifica. Fu un viaggio lunghissimo avvolto dal silenzio. Tutti nel treno avevano voglia di ascoltare più che di parlare. Alla stazione centrale di Napoli ci avvolse un senso di profonda, immensa solitudine. In migliaia scappavano. Provavano a raggiungere i propri paesi al centro del vero epicentro del terremoto o, semplicemente, scappavano.
Scoprimmo di essere pochi, che quel grande affollamento e confusione che ci accompagnava nelle nostre giornate in città era fittizio, fatto di ospiti pronti ad abbandonare una città morente. Sono ricordi di emozioni, non giudizi. Fabbriche chiuse, anche la nostra. Timidi e improvvisati tentativi di organizzare gli aiuti a quei tanti paesini di montagna rasi al suolo. Con il furgone usato per gli approvvigionamenti alla mensa partimmo con quanto era stato inutilmente preparato per una fabbrica ormai chiusa. Carovane di camion militari pieni di bare. Le tende e le facce scure degli operai in cassa integrazione della FIAT di Torino che, prima e meglio di noi, si erano organizzati per portare soccorso. Passammo una notte a scaricare gli aiuti dai camion. Dormimmo nel furgone immersi in una ghiacciata umidità. Ripartimmo il giorno dopo. A Napoli ritrovammo i nostri riferimenti. La CGIL convocò molti di noi. Eduardo Guarino, allora segretario della Fiom, propose e iniziò ad organizzare squadre di delegati per presidiare il territorio con l’intento di evitare lo spreco di denaro pubblico, l’infiltrazione della camorra, per controllare faccendieri e politicanti. Inutile dire che non partì mai nessuno. Il resto è cronaca, ahimè storia, visto il tempo trascorso. Storia giudiziaria, sociale, politica.
In quarant’anni tanto è cambiato. Ci sono i treni super veloci con connessioni a internet, ci sono i cellulari, ci sono nuove ricchezze e vecchie povertà. Non esistono più quei partiti politici, non c’è più neanche Eduardo Guarino e tanti dirigenti del sindacato e della sinistra che con grandi battaglie, grandi vittorie e drammatiche sconfitte, hanno scritto la storia di questo nostro Paese. Oggi i migranti non siamo più noi ma li accogliamo, spesso li respingiamo. I colori delle stazioni sono cambiati. Che rimane di quella esperienza? Tanto e niente. Ma in quel tanto e in quel niente ci sono le vite di tutti noi e di chi è venuto e continuerà a venire dopo di noi. Non sfuggiamo al nostro destino umano. La nostra vita è la nostra memoria. Non siamo una tabula rasa. Il ricordo si colora, in maniera più o meno intensa, a seconda delle relazioni che hanno intessuto le nostre esistenze. Perdere la memoria è l’incubo peggiore che accompagna la nostra idea di vecchiaia. Temiamo che il nostro oblio diventi l’oblio di tutti, consegnandoci a una condizione di precarietà, giovani e anziani, in balia degli instabili affetti familiari, trasformandoci da persone a corpi da accudire.
Complimenti per l’articolo e grazie mille per la stima rivolta a mio zio Eduardo.. avrebbe potuto dare molto di piu, ma il destino cosi ha voluto. Ancora grazie