“America First”, “Keep America Great!”. Quante volte in questi ultimi quattro anni abbiamo sentito queste parole pronunciate dal “Commander in chief” di quella che è comunemente definita “la più grande democrazia del mondo libero”. Ma è d’obbligo chiedersi: quando questo paese, gli Stati Uniti d’America, è stato davvero “grande”? E poi: cosa vuol dire grandezza? Certo non soltanto le dimensioni territoriali; con i suoi 9 milioni di chilometri quadrati di superficie gli Stati Uniti non sono nemmeno la metà dei 22 milioni dell’ex Unione Sovietica, la Russia. Grandi in che cosa, allora? Se volgiamo lo sguardo indietro, al 4 luglio 1776, giorno della firma della Dichiarazione d’Indipendenza dei futuri Stati Uniti, ci rendiamo conto che mai un documento di tale importanza nacque già inficiato da una serie di clamorose falsità. La frase più famosa d’esso recita: “Tutti gli uomini sono creati uguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Il principale redattore della Dichiarazione fu Thomas Jefferson, che divenne poi il terzo presidente degli Stati Uniti, per il quale l’espressione “tutti gli uomini” non aveva certamente il significato che noi le attribuiamo, in quanto fra quegli “uomini” egli intendeva includere esclusivamente quelli bianchi come lui. Jefferson era uno schiavista, proprietario di schiavi e tale rimase per sempre. Erano solo gli uomini “bianchi”, pertanto, che avevano l’esclusivo diritto alla libertà e alla felicità, binomio inscindibile, perché senza l’una non può esservi l’altra. Jefferson e i suoi successori fecero “grande” l’America sterminando intere popolazioni di nativi americani, ai quali sottrassero la terra in una colonizzazione di rapina che ridusse in miseria e schiavitù popoli orgogliosi che, come loro e con più diritto di loro, rivendicavano il diritto a vivere in pace sulla loro terra. La “grandezza” e la ricchezza degli aristocratici Stati del Sud, fu dovuta all’enorme quantità di manodopera nera a costo zero che contribuì in maniera rilevante allo sviluppo del Paese, insieme alle migliaia di lavoratori provenienti dall’Asia, grazie ai quali vide la luce la ferrovia che congiunse gli Stati occidentali a quelli orientali. Lavoratori, quelli neri e quelli gialli, che per gli americani non erano esseri umani, ma soltanto mezzi di produzione, merce che si poteva comprare e vendere e uccidere senza conseguenza alcuna.
Il trascorrere dei secoli non portò a sostanziali mutamenti, se ancora, negli anni ’60 del XX secolo, Martin Luther King dichiarava pubblicamente di avere un “sogno”, quello di costruire un’America in cui tutti, bianchi e neri, fossero considerati uguali e liberi. Sogno che con la presidenza di Donald Trump si è fatto di tutto per cancellare, se solo guardiamo ai conflitti razziali che ancora – e chissà per quanto tempo – dilaniano questo “grande” Paese. Come dimenticare, poi, che, fino ad oggi, gli Stati Uniti sono stati il primo e unico paese al mondo a ricorrere all’uso di armi nucleari per sterminare il “nemico”, considerando i giapponesi un popolo di “serie B”, sul quale si poteva sganciare un ordigno micidiale i cui effetti ancor oggi, a più di 70 anni dall’evento, mostrano le sue evidenti, tremende, conseguenze: quelle di un vero “crimine contro l’umanità”. E sono sempre loro, i “grandi” Stati Uniti, che si battono strenuamente per impedire che altre nazioni – l’Iran, per esempio – possano munirsi di quell’arma che soltanto loro si sentono in diritto di usare. Nemmeno la Russia sovietica, tremenda dittatura liberticida, osò mai fare quello che avevano fatto gli Stati Uniti. E se oggi, nel 2020, ancora 70 milioni di americani inneggiano a un presidente razzista, palazzinaro, omofobo, accusato da numerose donne di molestie sessuali, accusato di frode fiscale, bullo e ignorante, vuol dire che in America il proposito di Jefferson e degli altri è rimasto ancora largamente una dichiarazione d’intenti, priva di fondamento.
La realtà è che noi europei abbiamo sempre guardato all’America come al paese della libertà – dato che all’ingresso del porto di New York vi hanno innalzato una statua – attraverso gli occhiali deformanti della più grande arma di distrazione di massa mai realizzata: Hollywood. È stata l’industria americana del cinema che ha esportato nel mondo intero l’idea di un’America che non è mai esistita, l’America di Frank Capra con film come La vita è meravigliosa, trascurando il fatto che l’America è invece il paese descritto da John Steinbeck in tutti i suoi capolavori. Per noi l’America era James Stewart, Gregory Peck, John Wayne, Gary Cooper, con i loro personaggi positivi, intrepidi, coraggiosi, amanti della libertà. Come dimenticare Il buio oltre la siepe, di Harper Lee, che mostra un personaggio che non può non essere amato, Atticus Finch. Ma l’America vera è principalmente quella di Mississippi burning, di Alan Parker, dal quale emerge tutta la brutalità, la protervia, l’inestirpabile razzismo che, ancor oggi, caratterizza gran parte degli americani, in particolare quelli degli Stati del Sud. Ma noi siamo stati incantati dai musical, dalle commedie mielose che, per i nostri genitori e per quelli più anziani fra noi, erano il volto di quel Paese. E, infine, ci viene ricordato che sono stati loro, gli americani, a “liberare” l’Europa dal mostro nazista e a difenderlo da quello comunista, e senza il cui intervento la civiltà europea avrebbe corso il rischio di sparire. Quando arrivarono questi giovanottoni che distribuivano sigarette, cioccolata, chewing gum, e scatolette, gli europei, e gli italiani in particolare, sembrarono impazzire per loro, e con loro molte “segnorine” che si gettarono fra le braccia dei “liberatori”. Solo che si trascura il fatto importante che tutto ciò ebbe un costo, quello di accreditare la mafia come interlocutore privilegiato in quanto – anche se l’argomento è controverso – fu grazie al significativo supporto dato da quest’organizzazione criminale alle forze alleate che esse riuscirono a liberare la Sicilia dalle truppe naziste.
Tornando all’attualità, ciò che accade in questi giorni dovrebbe farci riflettere sul “mito” americano; quello a cui stiamo assistendo è uno spettacolo penoso, indegno di una grande democrazia e di un Paese che ha sempre voluto erigersi a modello su tutti gli altri, sempre con un senso di sufficienza nei confronti degli europei – inglesi esclusi – che essi definiscono “mangia rane”, parlando dei francesi, “mangia spaghetti”, parlando degli italiani, e “crauti”, parlando dei tedeschi. Queste elezioni americane hanno mostrato in tutta la sua inadeguatezza il sistema elettorale americano, facendoci sentire sollevati se pensiamo al nostro che, pur se con tutti i suoi difetti, è infinitamente migliore. Con queste elezioni gli americani hanno perso per sempre – se mai lo hanno avuto – il diritto di erigersi a “grande” democrazia, e comunque andrà a finire, gli strascichi e le conseguenze del caos elettorale e della protervia di Trump peseranno per molto tempo sull’intera nazione.
“Keep America Great” e “America First” risultano essere quindi slogan privi di significato, utili solo a infiammare gli animi di quella gran parte di cittadini diseredati, poveri, appartenenti alle fasce più depauperate della popolazione, che vivono sempre in attesa del riscatto da parte di un “messia”, perché essi, da soli, non ci riescono. Ma se il “messia”, si chiama Trump, allora è proprio il caso di un sano ripensamento, la prossima volta che qualcuno definirà l’America “grande”!
Un bentornato a Sergio Pollina, sempre lucido e appassionato, di cui personalmente sentivo la mancanza