È passato anche il secondo fine settimana di novembre. L’inverno è alle porte; sarà diverso tutti gli anni ma tutti gli anni uguale, come cantava Guccini, o no?
Dopo quattro anni gli elettori statunitensi si sono liberati di un presidente problematico, sovranista e razzista, anche se le incognite non sono del tutto dissipate, come ha scritto il nostro direttore.
Siamo ancora nel pieno della seconda ondata di una pandemia che continua a mietere vittime e sappiamo che il Natale consumistico, almeno per quest’anno, è saltato.
Nel frattempo le carte sembrano continuamente rimescolarsi. Governi che a marzo esprimevano posizioni negazioniste della pandemia, fino ad adottare con molto ritardo provvedimenti restrittivi, oggi sembrano i più duri e severi con le loro popolazioni. C’è chi, come il Governo italiano, – che tra mille critiche ha adottato in solitudine provvedimenti drastici tra marzo e giugno, la cui efficacia è stata dimostrata dal repentino calo della diffusione del contagio – oggi si mostra più cauto nell’adottare nuovi provvedimenti e, invece di rafforzare il valore della Politica come luogo della decisione, si autocensura appellandosi alla oggettività scientifica delle scelte operate.
Con gli ultimi provvedimenti, presi d’intesa con i presidenti delle regioni, il Governo pare aver declassato le proprie scelte da politiche ad amministrative nel tentativo fallito di neutralizzare le opposizioni: scegliere di costruire un modello statistico, da cui far discendere le decisioni di limitazione della mobilità territoriale dei cittadini, non è apparsa una scelta autorevole ma una rinuncia al proprio ruolo di decisore. Il paradosso è che questo sistema ha scatenato la scomposta reazione dei presidenti di regione, nonostante la decisione sia stata con loro preventivamente concordata. De Luca si preoccupa di dar conto alla strana alleanza che lo ha riconfermato al governo della regione. Fontana, dalla martoriata Lombardia che non avrebbe mai voluto chiudere né prima né adesso, si trova a fare i conti con una oggettiva diffusione della pandemia e con l’inevitabile collasso del sistema sanitario regionale. In questo contesto confuso e incerto in troppi discutono in pubblico e in privato come se si stesse commentando un risultato calcistico al bar del quartiere, con approssimazione e supponenza.
Tra le tante “parole in libertà” che dobbiamo ascoltare e sulle quali ci costringono a discutere, due in particolare hanno avuto il sopravvento: la presunta opposizione tra salvaguardia della salute pubblica e difesa dei livelli economico-industriali raggiunti e la possibilità di immaginare un confinamento selettivo delle persone a più alto rischio come gli anziani.
Il capitalismo, sistema ormai consolidato nelle sue tante varianti in tutto il mondo, ci ha abituato a repentini e convulsi cambiamenti nel nostro modo di vivere, nella possibilità di accedere al consumo di beni e servizi in qualità e quantità impensabili solo qualche stagione passata. Tra gli effetti collaterali determinati, per alcuni considerato positivo e per altri – i contabili di stato – negativo, l’allungamento della vita media degli individui è forse il cambiamento più vistoso e contraddittorio per le conseguenze che ha determinato. Nell’accezione che su queste pagine ci ricordava Concetta Russo citando il poeta Auden, “I miei contemporanei non sono altro che i vivi sulla terra finché sono anch’io vivo, siano essi poppanti o centenari”, la popolazione contemporanea del nostro pianeta mai come prima è costituita da un gran numero di persone per ogni fascia di età, e nonni e pronipoti si trovano a condividere modificazioni profonde nel loro modo di vivere. Lo sviluppo delle scienze e in essa della medicina, il grande business della cura degli anziani, del mercato per i prodotti della terza età, sono parte integrante del processo economico e produttivo. In un’economia dinamica ogni settore ha pari dignità nei confronti di un altro, purché produca profitti e benessere. Quindi proporre la contrapposizione tra salvaguardia della salute e sviluppo economico è inconsistente, è come negare il senso dello sviluppo economico degli ultimi 200 anni.
Quella dello sviluppo economico non è mai stata una storia lineare, tra crisi a volte catastrofiche, guerre e distruzioni. Una storia mai però interrotta del tutto e mai guidata da obiettivi etico-morali ma esclusivamente legati al raggiungimento di livelli sempre maggiori di profitto. Non esiste, in questo senso, un “prima” e un “dopo”, un’era mitica di sviluppo giusto e una di sviluppo sbagliato, un tempo di padroni buoni e poi di padroni cattivi. Sentiamo troppo spesso ripetere la litania “siamo diventati un popolo che pensa solo al consumo”, come se questa fosse la caratteristica di questi anni e non l’essenza stessa del capitalismo industriale come la tragica opposizione tra interessi dei potenti e disperazione degli esclusi. La grande svolta che c’è stata nella storia delle vicende umane è quella legata all’affermarsi dei sistemi democratici e parlamentari. Già prima, a dire il vero, la nascita della Politica come arte della mediazione tra interessi contrapposti aveva segnato il pensiero e l’azione dei governanti. È solo però con l’irrompere sulla scena della forza del suffragio universale, della possibilità di determinare l’indirizzo di governo con l’esercizio del voto, che i sistemi di governo hanno dovuto misurarsi con nuove sfide.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a una capitolazione totale della politica agli interessi unilaterali del profitto; la capacità di chi governa di equilibrare i processi economici si è drasticamente ridotta e stiamo giungendo a punti di non ritorno nella distruzione di risorse naturali; le diseguaglianze tra condizioni dei ricchi e dei poveri, per estensione territoriale e per dimensione numerica, ha raggiunto livelli non sostenibili. Il paradosso è che proprio quando sembra che il potere economico abbia raggiunto un livello di autonomia estrema dalla politica, si cerca sempre più il consenso popolare, il consenso elettorale. L’effetto critico che si sta determinando è che il flusso decisionale viene imbrigliato nelle vecchie logiche, si parla troppo di assistenza, tutti reclamano “ristori”, ma non emerge un nuovo orizzonte.
Un conto è affrontare un’inusitata emergenza, altro è uscire dalla crisi con la forza trainante di un progetto collettivo e condiviso. Il rischio è che persistano interessi e commerci deleteri e di parte. Come ci ha ricordato Fusi qualche girono fa, si continuano a produrre armi e pochi respiratori polmonari, si fanno proposte astruse come quella di isolare i più anziani perché più esposti all’infezione, ma ci si rifiuta di affrontare i meccanismi di trasmissione del virus. Il mondo imprenditoriale, salvo qualche caso isolato, non si attrezza, non si reinventa adeguandosi ai nuovi scenari.
Si chiudono del tutto o parzialmente bar e ristoranti, cinema e teatri, mostre e musei, ma nessuno, neanche le autorità proprietarie e preposte alla gestione dei beni culturali, ci risulta stiano progettando modelli e organizzazioni per rendere diverso il consumo e la fruizione di servizi. Si aspetta un fantomatico ritorno alla normalità, con il rischio, come è accaduto questa estate, che riaprendo confini interni ed esterni si ripresentino nuove ondate di questa o di altre pandemia. Insomma siamo tutti in attesa dello sbarco di orde di turisti da aeroporti, porti e stazioni ferroviarie. L’informatizzazione dei servizi, la costruzione di una rete diffusa e non concentrata di attrattori turistici, culturali e commerciali rimane un’idea affidata solo ai sognatori: ora bisogna riaprire le ferriere e basta, l’economia deve ripartire. Ridefinire nuovi livelli di consumi accettabili, ridurre la mobilità delle merci oltre che delle persone, ridisegnare i modelli di crescita delle economie e tutto quanto ne discende in termini di inquinamento, di distruzione di risorse, di diseguaglianze e tanto altro è ancora una volta rimandato a non si sa quando.
In tutto questo l’Occidente capitalistico, rinchiuso nella sua percezione come unico modello giusto e vincente, non si accorge che il grande fantomatico nemico, il grande temuto concorrente globale, la Cina, con il suo capitalismo di stato, sta “risolvendo” il problema da sola: la sua economia ha ripreso a crescere puntando sui consumi interni: quasi due miliardi di persone cominciano a consumare come i più ricchi paesi occidentali. Altro che limitazione delle emissioni di gas dannosi, se i cinesi inizieranno a consumare e a sprecare come il cittadino statunitense con un reddito medio basso, la distruzione del pianeta da scenario catastrofistico e fantascientifico rischia di diventare una possibilità vicina nel tempo.