Quando parliamo della canzone classica napoletana, una volta esaurita la rassegna dei titoli più famosi, il pensiero e l’ammirazione vanno agli autori dei testi. Nella nostra mente è infatti radicata l’idea che questi capolavori siano soprattutto poesia. I più noti autori dei testi erano infatti anche, forse soprattutto, poeti: Salvatore Di Giacomo, Ferdinando Russo, Libero Bovio, Edoardo Nicolardi, Ernesto Murolo, E.A. Mario sono stati infatti, insieme a pochi altri, alfieri della cultura partenopea prima ancora che autori dei testi di tante canzoni. In realtà la musica viene data per scontata, una base mutevole ma connaturata al popolo napoletano. Dimentichiamo evidentemente che la canzone napoletana ha fatto il giro del mondo a prescindere dai differenti idiomi presenti sul globo terrestre e, quindi, proprio per le particolari caratteristiche musicali. Alle orecchie degli stranieri le melodie napoletane suonavano e suonano tuttora come qualcosa che evoca la magia dei luoghi richiamati dai titoli e del carattere particolare, solare, di un popolo unico al mondo. E questo richiamo ha emozionato per decenni sia i “furastieri”, che restavano incantati dalle mille bellezze del golfo, sia gli emigrati che le sognavano da lontano, quando non avevano la fortuna di rivederle.
Non è quindi azzardato concludere che le fondamenta della canzone napoletana poggiano sui testi e sulla musica in una proporzione che vede forse prevalere quest’ultima. Non a caso le due canzoni più universalmente note, ‘O sole mio e Funiculì funiculà, non vantano testi di particolare valore poetico. La prima nacque occasionalmente a Odessa, dove il sole non doveva essere un granché, e i suoi versi sono dovuti a Vincenzo Capurro, autore di molti altri testi ma di professione cronista di non grande successo del “Roma”, poi degradato a semplice impiegato amministrativo nello stesso giornale. L’altra nacque invece dall’incontro tra il musicista Denza e un suo amico, ospiti dello stesso albergo a Castellammare di Stabia.
Viene quindi da chiedersi quale fortuna sarebbe arrisa ai versi di Di Giacomo e soci, poeti o giornalisti che fossero, se non avessero avuto il potente supporto di temi musicali di straordinaria efficacia, tanto nel filone sentimentale che in quello popolare, scanzonato e vivace. La strada giusta per rispondere a questa domanda, palesemente retorica, non può che essere quella di valorizzare le figure dei compositori ai quali possiamo “intestare” i temi musicali più comunicativi. Tra questi vanno segnalati, in quanto meno prolifici di quelli che vedremo oltre, Vittorio Fassone, autore tra l’altro di ‘A tazza ‘e cafè, ma soprattutto Enrico Cannio, diplomato al Conservatorio di Napoli anche in direzione d’orchestra, al quale dobbiamo l’appassionata ‘A Serenata ‘e Pulicenella e nientemeno che quel simbolo della canzone napoletana che è diventato ‘O surdato ‘nnammurato. Più ampia, ma altrettanto felice, è la ricca produzione di Rodolfo Falvo (detto il “Mascagnino” per la sua somiglianza con l’autore di “Cavalleria rusticana”). Dalla sua penna nacquero capolavori come ‘O mare ‘e Margellina, Guapparia, Dicitencello vuje e Tarantelluccia e Uocchie c’arraggiunate
Altrettanto rispetto merita anche la figura di Gaetano Lama, uno dei compositori più vicini a Libero Bovio, in compagnia dei non meno ispirati Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente: tutti insieme fondarono nel 1926 una casa editrice musicale, chiamata per l’appunto “La Bottega dei quattro”, che non ebbe però lunga vita. La sua vasta produzione, che comprende capolavori come Reginella e Silenzio cantatore, entrambi su versi di Bovio, sforò brillantemente anche nella canzone “in lingua”: sua la musica di due punti fermi della canzone italiana, Cara piccina e Tic-ti Tic-ta. Bisogna in proposito ricordare che nei primi decenni del ‘900 editori musicali del nord (Ricordi aveva aperto una sede a Napoli già dal 1864) si rivolsero ai nostri autori per comporre canzoni nella lingua nazionale. E la cosa ebbe un successo duraturo: fino a qualche decennio fa tutti conoscevano Fili d’oro, musicata da Vincenzo Capurro, La Spagnola, composta da Vincenzo Di Chiara, e la notissima Signorinella, dovuta proprio alla coppia Bovio-Valente.
Come abbiamo ricordato, cointestatari della “Bottega dei quattro” insieme a Bovio e Lama furono Ernesto Tagliaferri e Nicola Valente. Il primo, barbiere nella bottega del padre, riuscì a diplomarsi in violino e composizione; molto attivo nel teatro di rivista napoletano, conseguì grandi successi lasciandoci vere gemme, come Napule ca se nne va, Mandulinata a Napule, Piscatore ‘e Pusilleco, Quand’ammore vo filà, ‘O cunto ‘e Mariarosa e, soprattutto, Passione, composta insieme al sodale Nicola Valente su versi dell’altro socio Libero Bovio.
Non meno prestigioso è il contributo di Nicola Valente (figlio d’arte: il padre Vincenzo, spentosi nel 1921, aveva composto circa quattrocento canzoni in cinquant’anni di attività) nel quale spiccano, oltre a Signorinella e Passione, di cui abbiamo appena detto, molti brani coinvolgenti come Nu barcone e Tre terature, piuttosto maliziosi, o come ‘A casciaforte e ‘N accordo in fa, ma soprattutto la struggente Tiempe belle.
Entra nella storia della canzone napoletana, benché pugliese di nascita, anche Pasquale Mario Costa, musicista finito ed anche ottimo cantante, con una nutrita batteria di capolavori, nati dalla abituale collaborazione con Di Giacomo, dalla quale svetta senza alcun dubbio Era de maggio ma che conta altre gemme come Serenata napulitana, Lariulà, Oilì oilà; straordinaria anche Scétate questa volta su versi di Ferdinando Russo.
Pugliese di nascita è anche Evemero Nardella, direttore d’orchestra molto attivo, e con successo, nell’operetta. Pignolo e di carattere scontroso compone la musica di alcuni capolavori: Suspiranno, Che t’aggia dì?, Chiove, Mmiez’’o grano.
Musicista di valore, autore anche di musiche da film, Ernesto De Curtis compone a sua volta almeno un paio di capolavori immortali: Torna a Surriento (insieme al fratello Giambattista, autore teatrale) e Voce ‘e notte. Dalla sua penna anche altre grandi canzoni: Tu ca nun chiagne, Ah l’ammore che ffa fa ed è sua anche l’indimenticabile (!) canzone “in lingua” Non ti scordar di me.
Questa sintetica rassegna di quelli che, con la loro musica, hanno contribuito al successo planetario della canzone classica napoletana si conclude con tre personalità di grande statura la cui caratteristica comune è di non aver seguito una formazione musicale.
Il primo, Edoardo Di Capua, frequentò il conservatorio (il padre era violinista), ma lo abbandonò anzitempo. Oltre a quel monumento alla canzone e a Napoli che è diventato ‘O sole mio, dette alla luce altri gioielli, come I’ te vurria vasà, Torna maggio e Maria Marì.
All’autodidatta Salvatore Gambardella è stato dedicato addirittura un film biografico non privo di valore, “Quando tramonta il sole” (1956), che racconta la sua non lunga esistenza segnata dai suoi successi, dalle sue passioni ed anche dagli inevitabili dolori che li accompagnano. Sorprende in questo autore l’ampiezza della gamma espressiva che va dai capolavori sentimentali e appassionati, come Quanno tramonta ‘o sole e ‘O marenariello, a quelli che descrivono l’incanto del paesaggio, come Serenata a Surriento e Pusilleco addiruso, fino al repertorio più frizzante e popolare di canzonette come Ll’arte d’o sole, Ninì Tirabusciò, Lilì Kangy, Quando mammeta t’ha fatto, Furturella, Madama Chichierchia e Quanno mammeta nun ce sta, risultando, alla fine, uno dei più ispirati creatori di temi musicali.
Last but non the least, E.A. Mario (nome d’arte di Giovanni Ermete Gaeta), poeta ma anche musicista dilettante, anticipa di qualche decennio la figura dell’autore che raccoglie in sé sia la creazione dei testi che della musica, un cantautore ante litteram. I capolavori che ci lascia non temono il confronto con quelli già ricordati: Dduje Paravise, Core furastiero, Funtana all’ombra, Santa Lucia luntana, Canzone appassiunata, Maggio si tu, fino alla celeberrima Tammurriata nera rappresentano una bella fetta del repertorio più amato. E.A. Mario lasciò un segno indelebile anche nella musica “in lingua” con Vipera e Balocchi e profumi, ma soprattutto con La leggenda del Piave che accompagno l’ultimo tratto della guerra 1915-18, diventando poi l’inno celebrativo della vittoria.
A conclusione di questo breve excursus sui musicisti che resero grande la canzone classica napoletana, bisogna però ammettere che il suo scopo è alquanto fallito. Ci si attendeva di poter individuare gli elementi caratteristici che permettessero di distinguere un autore dall’altro. Non è così o, almeno, non lo è al livello dilettantistico che connota questa ricerca. Si tratta invece di un fiume carsico che si è arricchito nel corso dei secoli del contributo dei più diversi affluenti: la musica di corte, le villanelle, la musica popolare, l’opera buffa e quella seria, il vaudeville francese dell’Ottocento, l’operetta, il valzer francese e quello viennese; un corso sotterraneo che è affiorato in maniera del tutto imprevedibile ed irregolare portando però la stessa limpida acqua ad irrorare ora i latifondi dei grandi professionisti, ora i giardini degli autodidatti, ora addirittura l’orticello di qualche compositore occasionale, come Giuseppe Capolongo, impiegato del lotto ed autore di ‘Na nuttata ‘e sentimento o come Vincenzo D’Annibale, rampollo di un imprenditore guantaio, al quale dobbiamo ‘O paese d’o sole.
N. b.: i brani menzionati sono tutti reperibili su Youtube. Suggerisco nell’ordine, quando possibile, le versioni di Roberto Murolo, Massimo Ranieri, Franco Ricci, Carlo Missaglia, Giacomo Rondinella, Sergio Bruni.
Una bellissima panoramica sulla nostra canzone, vanto del nostro popolo. Un’analisi esaustiva, perfetta!