Nella notte tra il 4 e 5 ottobre, Luigi Caiafa di 17 anni è morto dopo aver compiuto una rapina ai danni di alcuni giovani che stazionavano all’interno di un Mercedes. Il ragazzo, intercettato subito dalle forze dell’ordine, è morto per un proiettile esploso da uno degli agenti accorsi tra Via Duomo e via Marina, nel cuore di Napoli. Nonostante da poche ore siano state pubblicate in rete alcune immagini dell’accaduto, ancora è da verificare se il ragazzo abbia puntato o meno l’arma contro uno degli agenti che, come si evince dal video, spara diversi colpi, uno dei quali è stato fatale per il giovane.
Entrare nel merito della questione è estremamente complicato, eppure, come in ogni situazione della vita, i concetti di base molto spesso sfuggono. Non è la prima volta che questa città piange dei ragazzini che, abbandonati dalle famiglie e dalle istituzioni, trovano nella malavita l’unica strada per potersi rapportare con la società. Le ultime vicende di cronaca di Ugo Russo e Davide Bifolco hanno delle assonanze con questo nuovo dramma. L’arma con la quale Luigi aveva minacciato i giovani nell’auto era una replica, un’arma giocattolo. Questo ovviamente non è una giustificazione al vile atto del ragazzo che aveva già avuto problemi con la legge. Luigi infatti era sotto una misura giudiziaria di “messa alla prova” e tentava di riprendere in mano la sua vita facendo il pizzaiolo in un ristornate nei pressi di casa sua. Quello che però difficilmente si tende a sottolineare è la propensione della stampa nazionale che con estrema facilità e con un fare semplicistico tesse in poche righe la vita dei pregiudicati. Luigi era accompagnato durante la rapina da un complice, Ciro de Tommaso ovvero il figlio di Genny la Carogna ex capo ultras del Napoli. Il padre di Luigi invece ha dei precedenti penali. Tutte notizie che nell’immaginario collettivo servono per identificare i protagonisti già come scarti della società, persone che trovandosi già in difetto dalla nascita si aggiudicano la colpevolezza senza diritto di replica. Non stupisce ma continua ad inorridire gli animi più sensibili, la semplicità con cui sui social si tende a giudicare la vita di un ragazzo. Come se tutti fossimo cresciuti con dei cattivi esempi, senza soldi, senza prospettive future e mal giudicati dalla “Napoli bene”.
Quello che oggi manca è una critica che analizzi a monte le cause che spingono sempre più persone a passare da semplici ragazzini a delinquenti. Quello che invece è insensato è la risposta delle istituzioni che credono di risolvere un problema culturale con l’invio di decine e decine di forze dell’ordine. Nella Napoli delle mille contraddizioni servirebbe un esercito di assistenti sociali, figure che possano, seppur in parte, sopperire alle mancanze delle famiglie che non riescono a dare quel famoso “buon esempio”. Servirebbero strutture statali capaci di accogliere i ragazzini che invece la società e le istituzioni abbandonano in strada. Questi personaggi che noi, dall’alto del nostro cinismo borghese, definiamo “delinquenti”, crescono già da piccolissimi in strada, imparando quella che è l’arte di arrangiarsi, si rapportano già a 11-12 anni con la malavita che apparentemente li accoglie. Alla mancanza più totale delle istituzioni si sostituisce la malavita, questo si sa, eppure nessuno punta il dito contro questa dinamica. Nessuno recrimina alle istituzioni la totale noncuranza con cui indirettamente alimenta le file della camorra. Ci si limita ad una diagnosi banale del problema: “aveva una pistola, ha fatto una rapina, se l’è cercata.”
Il modo in cui si parla di Napoli e dei suoi “ragazzi-delinquenti” è il vero problema, l’analisi sociologica da quattro soldi non fa altro che legittimare una parte di popolazione a puntare il dito in maniera superficiale. E proprio questo modo disumano di trovare un cattivo nella storia ci porta a dire se una morte è meritata oppure no, come se fossimo dei giudici che dall’alto delle nostre esperienze di vita ci sentiamo in diritto di dire chi deve e chi non deve morire. Nascere in un rione napoletano, quando per di più non si hanno buoni esempi in famiglia, equivale a vivere in un girone dell’inferno dantesco. La vera realtà di questi luoghi non trova una giusta rappresentazione in nessun tg nazionale, neanche nei giornali tantomeno nelle fiction più famose. Intervistare una madre che piange suo figlio, con i suoi pochi strumenti culturali a disposizione, significa anche mettere il dito nella piaga. La più grande sconfitta è vedere il risultato di questa tanto decantata società civile, in cui gli ultimi restano ultimi perché i primi sono irraggiungibili.