Da anni grava sulla sinistra italiana l’accusa di partecipare a governi che nascono senza un vero progetto ma semplicemente “contro” qualcosa. Queste critiche, sollevate spesso proprio dall’interno della sinistra, vengono regolarmente respinte dai destinatari che si rifugiano dietro al paravento di programmi e progetti tanto ambiziosi quanto vaghi ed astratti. La sinistra dovrebbe invece avere il coraggio di riconoscere che le critiche sono fondate. Dopodiché avrebbe tutto il diritto di spiegare che questo atteggiamento oppositivo più che propositivo è sempre nato dalla convinzione che gli avversari costituivano un serio pericolo per il Paese se non addirittura una minaccia per la democrazia.
Com’è noto, la percezione del pericolo genera la paura, alla quale si reagisce con impulsi difensivi. Chi biasima questo tipo di reazione nel comportamento della sinistra non ha, con tutta evidenza, paura della destra così come è andata evolvendosi dal 1994. Sarà quindi istruttivo ripercorrere con la memoria le circostanze in cui la destra ha fatto paura.
Fu a dir poco inquietante la stagione del primo Berlusconi che aveva trasferito in Parlamento un intero collegio difensivo perché lo aiutasse ad approvare leggi ad personam di cui aveva assoluto bisogno e a minacciare sistematicamente l’indipendenza della magistratura. Lo stesso sostegno della sinistra al governo Monti fu determinato, oltre che dal timore dell’incombente dissesto delle finanze pubbliche, anche dalla paura che l’alternativa delle elezioni anticipate potesse portare nuovamente alla vittoria della destra. Ed è stata ancora la paura di lasciare il Paese nelle mani della destra che ha indotto i vertici del PD, pur coraggiosamente (o spericolatamente?) contrari, ad accettare la spinta di Renzi verso l’alleanza con il M5S dopo il Papeete, anche se è da escludere che la sua iniziativa sia stata dettata dalla paura.
In effetti la “paura” ha avuto ed avrà sempre un ruolo decisivo nelle scelte politiche. Ce lo insegna la Storia, a partire dall’affermazione delle grandi dittature del secolo scorso, generate immancabilmente dai timori indotti nelle masse da manipolatori più o meno perversi: la paura dei “comunisti” e dei disordini sociali che potevano provocare diede alla luce fascismo, nazismo e, in tempi a noi più vicini, il ventennio berlusconiano. Salvini e Meloni hanno invece giocato sulla paura che potevano suscitare gli immigrati. Era ed è dunque plausibile che sull’onda di queste nuove o vecchie paure possano nascere dei regimi. Il fatto che in Italia non ci sia una dittatura in atto non dimostra tuttavia che ciò sia conseguenza dei “governi della paura”: può darsi che la destra non avesse autentiche intenzioni oppure che, avendone, sia stata incapace di concretizzarla. Difficile saperlo.
Certo è che, per competere ad armi pari con la destra e il populismo, occorrerebbe promettere agli elettori cose mirabolanti e di impatto immediato, la cui realizzazione sarebbe poi insostenibile. Abbiamo visto quale sorte sia toccata alle promesse di Berlusconi: un milione di posti di lavoro, pensioni minime a mille euro, ponte sullo stretto di Messina. Ed abbiamo assistito anche ai danni provocati al bilancio statale dalle proposte effettivamente realizzate dai populisti, a partire dagli 80 euro di Renzi (populista anche lui, forse di sinistra), risultati incapaci di accrescere i consumi, e continuando poi con il fallimento del rilancio occupazionale promesso dal reddito di cittadinanza ed affidato ai famosi “navigators” di cui, una volta preso il largo, si sono perse le tracce. Per non parlare del colossale buco di bilancio dovuto a quota 100, per favorire qualche centinaio di migliaio di lavoratori, per lo più pubblici.
Inseguire i populisti è quindi pura follia, mentre proporre riforme serie a medio o lungo termine diventa un suicidio elettorale.
L’attuale governo avrebbe forse il tempo di proporre qualche obiettivo realizzabile entro il biennio di vita che gli resta e di poterne poi incassare il dividendo elettorale: i fondi europei ne offrono l’occasione. Ma con quali difficoltà? Con un sistema mediatico che gli è irrimediabilmente avverso, anche al di là delle intenzioni? Lo sbilanciamento mediatico è testimoniato, tra l’altro, dal comportamento della stampa vicina alla sinistra: le critiche e le inchieste giornalistiche che “la Repubblica” e “L’Espresso” non le risparmiano, facendo correttamente il proprio mestiere, sono forse confrontabili con le omissioni e le minimizzazioni che “Il Giornale”, “Libero” e “La verità” assicurano alle “malefatte” imputate alla destra?
Forse l’unica possibilità di uscire da questo vicolo cieco è proprio la riforma elettorale in senso proporzionale prossima al varo e, proprio per questo, osteggiata dalla destra populista. Il sistema proporzionale rivitalizzerà l’attitudine dei partiti alla mediazione politica, gravemente compromessa da venticinque anni di maggioritario, e riuscirà quindi a dividere la destra ed a marginalizzarne le fasce più estreme; il rischio è quello di riaprire la stagione dei governi paralizzati dai veti incrociati e dai ricatti dei partiti che li sosterranno. Ma questo sarebbe il male minore e quindi fa meno paura.
Il sistema proporzionale l’abbiamo sperimentato dal dopoguerra fino ai primi anni ’90 quando quella bella testa di Mariotto Segni ebbe la brillante idea di condurci al maggioritario, che veniva sbandierato in grado di garantire la stabilità di governo. Fu l’inizio della svolta a destra con i vari governi Berlusconi in alternanza con quelli più o meno di sinistra o tecnici. Ora pare che si ritornerà al proporzionale. Speriamo che serva davvero a dare stabilità, altrimenti non si avrà mai la capacità di prevedere riforme e pianificazioni a lungo termine.