Cosa c’insegna Plaza de la Dignidad?

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Chi segue la situazione cilena sa che le proteste sociali iniziate lo scorso 18 ottobre, ancora in atto dopo un anno, entreranno nei libri di storia. Il 2 ottobre, a soli tredici giorni dalla data dell’anniversario dell’Estallido social, Plaza de la Dignidad, nel cuore di Santiago de Chile, è tornata a riempirsi. Un luogo iconico diventato simbolo di una protesta ma anche di una volontà di riappropriazione popolare. Ai molti non sembrerà una novità, eppure quella piazza da mesi viene presidiata dai Carabineros, giorno e notte. Il governo di Piñera ha colto la palla al balzo grazie al Covid-19, provando a sottrarre alla gente quel luogo di opposizione. Nonostante un presidio permanente delle forze di polizia, sporadicamente, anche in questi mesi di lockdown si sono verificati episodi in cui gruppi di persone sono corse per sventolare la bandiera cilena, o quella Mapuche. Nonostante il divieto del governo, qualcuno è riuscito a recapitare il messaggio: “siamo qui, adesso vogliamo decidere anche noi, tutti. Vogliamo dire la nostra senza l’obbligo né la fretta di dover scegliere un leader politico”. Le organizzazioni di quartiere, le ollas comunes, assemblee nate spontaneamente, non hanno ricercato una figura dall’alto per risolvere la disastrosa disparità sociale che attanaglia il Cile. Si prova a soccorrere i più bisognosi come si può, portando cibo e altri beni di prima necessità. Si discute dal basso se il modello di società vigente sia ancora in grado di supportare le migliaia di famiglie che non arrivano a fine mese. Si discute se il neoliberalismo non sia un modello economico arrivato oramai al capolinea. Ma soprattutto si rimette in cima alle priorità la dignità dell’essere umano. Non è un caso dunque che quella piazza (Plaza de la Dignidad) porti questo nome.

Questi mesi di presenza, di gagliarda partecipazione alla vita politica del Paese, questo voler scrivere, ognuno con una parola, una nuova pagina di storia, rende onore ad un popolo attivo, sveglio, ancora in vita. Nonostante i 400 manifestanti che hanno subito traumi oculari a causa della repressione poliziesca, nonostante i 37 morti, nonostante le manganellate, le persone investite durante le manifestazioni, le perquisizioni in casa. Un clima surreale, eppure nonostante tutto ci sono migliaia di cileni che non smettono di protestare insieme. Certamente i manifestanti non hanno le risposte tanto meno le soluzioni in tasca per poter ridare dignità ad un Paese che, per dirne una, mette al bando dei propri cittadini l’acqua, un bene comune, ma che in Cile resta nelle mani di enti privati. Ma almeno da quelle parti mettono in discussione, si interrogano, questo meccanismo così partecipativo e dal basso qui in Europa, qui in Italia, ce lo sogniamo. Le nostre forme di dissenso si limitano per lo più ad un commento adirato sui social, come se un pensiero espresso virtualmente potesse nella realtà muovere anche solo una foglia. Il Cile dei 365 giorni di protesta, di presenza in piazza, di vita politica, ci insegna che per cambiare realmente le cose bisogna sporcarsi le mani, dedicarsi ad una causa, spenderci tempo. La politica non è vita, ma la politica decide sulle nostre vite. Intanto riguardo la diretta di ciò che accade nei dintorni di Plaza de la Dignidad, 400 forse 500 persone sfidano una pandemia che attanaglia il mondo, sono in strada contro la fame, contro un modello di istruzione elitario. Intanto una nuova vittima lotta tra la vita e la morte. Un ragazzo di sedici anni, per scappare da una carica dei carabineros, viene afferrato da un funzionare e gettato dal ponte Mapocho. Da un giorno è in atto un presidio permanente sotto l’ospedale dov’è ricoverato il ragazzo. Un’altra parte di manifestanti si incontra in Plaza de la Dignidad per redigere insieme un comunicato e chiedere al governo lo scioglimento del feroce corpo di polizia. C’è partecipazione, c’è volontà di cambiamento, costi quel che costi. Intanto in quella piazza riprendono i tafferugli con la polizia, gli idranti delle camionette gettano acqua sui manifestanti, nel caos più totale intonanobella ciao”. Chi urla, chi batte le mani, chi intona la canzone a colpi di tromba e tamburi. E così anche il Cile, lontano migliaia di chilometri, sembra più vicino.

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