È in corso da giorni un dibattito innescato dal garbato commento con cui Michele Serra rispondeva alla lettera nella quale un suo lettore lamentava come riuscisse difficile alle nuove generazioni andare ad occupare gli spazi presidiati da professionisti inamovibili quali lo stesso Serra. La posizione dell’opinionista di Repubblica è che debba essere la stessa evoluzione sociale a determinare il subentro delle nuove generazioni nei ruoli-chiave. Numerosi sono stati i contributi, sempre autorevoli, alla discussione, meritevole comunque di ulteriori approfondimenti; in questa sede desideriamo proporre alcune riflessioni con l’auspicio di promuovere un dibattito con i lettori.
La prima è che, se si affronta la questione da un punto di vista, diciamo, storicistico, il subentro dei più giovani ha avuto prevalentemente un decorso naturale, regolato dai vuoti lasciati dalle vecchie generazioni per motivi anagrafici. Talvolta le vecchie generazioni si sono arroccate per allontanare la loro sostituzione da parte dei più giovani: quando tali atteggiamenti oltranzisti hanno superato il limite della ragionevolezza, si sono verificati veri e propri sommovimenti politici e sociali.
Lo sviluppo tecnologico è stato un altro fattore ricorrente di ricambio: i giovani subentrano in ragione del possesso di nuove competenze tecnologiche che la vecchia generazione non riesce a comprendere e men che mai a padroneggiare.
Possiamo infine osservare come una classe politica corrotta e screditata, così come quella dirigente che ne è lo specchio, possa essere spazzata via anche se qui da noi il tentativo del Movimento 5 Stelle è sostanzialmente fallito per l’insufficienza del progetto politico ma anche per l’inadeguatezza dei suoi rappresentanti.
L’approccio storicistico poggia però su un assunto tutto da dimostrare e cioè che le sostituzioni generazionali, brusche o graduali che siano, si susseguano lungo un percorso ciclico in cui si alternano fasi di conservazione e fasi di rinnovamento. Questo andamento ondulatorio presuppone che ciascuna generazione sia, almeno in parte, simile a quella che l’ha preceduta: se così non fosse, ogni sostituzione darebbe uno scossone a questo andamento. Fino a qualche decennio fa chi subentrava portava con sé un arricchimento tecnologico, scientifico ma anche culturale e civile determinando, ciclo dopo ciclo, un avanzamento della società. L’impressione attuale è che le generazioni pronte al subentro sono, sì, portatrici di nuove competenze tecnologiche e scientifiche, ma sembra che abbiano totalmente smarrito i riferimenti culturali e valoriali che furono alla base della crescita civile della società. Possiamo riconoscere a loro merito che si è forse sviluppata una maggiore attenzione alla salute e all’ambiente, ma si è andato sempre più spegnendo l’approfondimento, la capacità di astrazione, il senso critico, lo studio della storia inteso come acquisizione della consapevolezza di che cosa sia la condizione umana.
Non è una novità che il binomio capitalismo/tecnologia abbia reso l’uomo un semplice produttore e/o un consumatore, sempre che non viva in una fascia sociale che lo colloca addirittura al di sotto della condizione di consumatore, cioè tra gli indigenti.
Naturalmente, fatte salve realtà meno compromesse, riscontrabili in paesi come la Finlandia, la Lituania, solo per indicarne alcuni, il capitalismo sfrenato degli ultimi decenni ha indotto una massificazione che non può non preoccupare: la capacità di giudizio è diventata sempre più evanescente, fino al punto di non distinguere una notizia vera da una totalmente falsa. Quindi, per quanto corrotta e screditata possa essere la classe dirigente attuale, a molti può apparire rischioso mettersi nelle mani di rappresentanti delle nuove generazioni poco o per nulla affidabili: in Italia abbiamo già sperimentato Renzi, Salvini, Di Maio e si può quindi comprendere chi ripone le proprie speranze per il futuro in personaggi esperti e stimati come Mario Draghi o altri suoi coetanei con alle spalle una formazione tradizionale, anche umanistica (acquisita un tempo nei licei, ma non solo), che li rende credibili e quindi affidabili. La stessa cosa si può dire della preoccupazione dei tedeschi per la non lontana uscita della Merkel dalla scena politica.
Il punto è che il progresso scientifico e quello tecnologico, entrambi strumentalizzati se non addirittura alimentati in senso consumistico dal capitalismo sfrenato cui assistiamo da qualche decennio, non bastano a qualificare una classe politica e dirigente all’altezza dei tempi problematici che ci attendono. Per affrontarli occorrerebbe ritrovare quella consapevolezza squisitamente umanistica in assenza della quale si è perduto il senso della responsabilità per le sorti della comunità umana, responsabilità che dovrebbe sempre ispirare le decisioni di chi la guida e che, spesso, c’è stata in un passato non lontano. Ma chi o che cosa potrebbe recuperare questo piccolo paradiso perduto? Forse la scuola, con la sua inclinazione verso una formazione finalizzata alla ricerca di lavoro e con gli insegnanti mediamente mediocri che ci ritroviamo? Ripristinando un percorso formativo in senso umanistico degli stessi insegnanti, che li metta in grado di formare degli studenti più motivati e consapevoli? e che tempi occorrerebbero per inaugurare un nuovo ciclo di sviluppo? e quanto ce ne resta prima che la situazione precipiti irreversibilmente?
In effetti la teoria vichiana dei corsi e ricorsi confligge con quella opposta del “ciclo unico” di ciascun fenomeno, quella che ne vede la nascita, lo sviluppo e fatalmente la fine: per quante generazioni durerà ancora la vita umana sulla terra? cento, mille, diecimila? ed in quali condizioni materiali di possibile convivenza pacifica? Solo l’eternità autorizzerebbe a sperare in tanti, nuovi Rinascimenti. Ma l’eternità è un’astrazione, come l’infinito, ed entrambi non sono dimostrabili. Quindi, vengano pure le nuove generazioni a soppiantare le vecchie, ma da quelle che appaiono all’orizzonte, omogeneizzate e digitalizzate, non ci sentiamo di propendere per un convinto ottimismo.