La generazione in cerca di utopie

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Foto di Rachele Renno

La città è silenziosa, il traffico tranne al centro storico è quasi inesistente e gli ultimi superstiti in città si aggirano tra i lembi di spiaggia affollati e le viuzze deserte, cercando un po’ di riparo dal caldo asfissiante di questo strano agosto, cercando di vedere il mare, anche se da lontano.

Noi degli anni ’80-’90 abbiamo vissuto e continuiamo a vivere gli ultimi mesi come un’ennesima punizione di non si sa quale destino beffardo. Sono tanti i giovani che sono rimasti in città, che passeranno l’estate a lavorare e che non possono permettersi di andare in vacanza, neppure usufruendo dell’agognato bonus vacanze stanziato dal Governo.

La mia generazione è stata sfortunata? Davvero dovremmo attribuire alla sorte o al caso decenni di mala politica e scelte sbagliate, che hanno relegato noi giovani ad una vita perennemente precaria e senza futuro?

Senza voler trascendere nel vittimismo o nell’autocompatimento, potremmo oggettivamente constatare che la nostra generazione ha vissuto due crisi economiche in poco più di 10 anni: quella del 2008, che ha modificato tutti gli assetti economici fino ad allora esistenti, e quella del 2020, una pandemia con conseguenze macroeconomiche a livello mondiale, i cui effetti dureranno per anni. Nonostante ciò però si prova a realizzare i propri desideri: si studia con ardore, pur avendo il padre operaio e cercando con le borse di studio fornite dalla Regione di ottenere sussidi ed agevolazioni per le tasse, si fanno corsi di lingua, che con le tecnologie attuali a nostra disposizione possono essere svolti anche solo con delle app scaricate sul telefono. Si vincono dottorati anche senza raccomandazione, solo con il proprio impegno e sudore, rinunciando alla vita mondana e spesso anche a quella sentimentale. Si lavora per dieci ore a 500 euro al mese per anni, tirocinio dopo tirocinio, in attesa del lavoro tanto agognato. Parafrasando Pino Daniele: “e per sognare poi qualcosa arriverà” .

Ci si mantiene per studiare, anche con lavoretti saltuari, tra una consegna di pizze ed un turno da cameriere al bar, pagati 30-40 euro per 8 ore di lavoro, con tutti i gesti di fastidio e noncuranza dei clienti inclusi nel prezzo.

Lauree, master, corsi di specializzazione, minimo due lingue, il tutto entro i 23/24 anni se no si è vecchi, per il sistema che corre sempre più veloce sfornando giovani che devono essere pronti a combattere nella giungla del libero mercato.

Beh, restano i concorsi. All’ultimo concorso per insegnanti si sono presentate 500.000 persone. 500.000 persone! Un numero così alto già fa capire quante possibilità ci siano di poter accedere ai posti messi a disposizione. E dunque lì si capisce che il sistema è totalmente sbagliato, totalmente malato, in un Paese dove l’età media è tra le più lunghe d’Europa. Noi e la Spagna, Paesi ritenuti tra i più “vecchi” o longevi del vecchio Continente. Ma non sempre l’aspettativa di vita riesce a coincidere con la qualità della stessa. E questo me l’ha insegnato il mio professore di Geografia politica ed economia alla prima lezione che tenne, ormai 8 anni fa. Ma lo ricordo ancora.

La classe dirigente e la classe politica faticano a lasciare spazio al nuovo, all’innovazione, ai giovani, faticano a scommettere su di noi. Sicuramente non sempre giovane corrisponde a competente, o ad esperto. Ma l’esperienza va anche costruita, permettendo una crescita non solo umana ma anche lavorativa. Certo, di misure assistenzialiste ne abbiamo viste negli anni, anche solo pensando al reddito di cittadinanza o alle ultime promesse del Ministro dell’Università e della Ricerca o del ministro Provenzano, con riferimento a milioni di fondi stanziati per il Sud, per l’istruzione. “Sentiamo che l’emergenza nazionale sia l’immigrazione, ma in realtà sono ancora tantissimi gli emigrati, soprattutto di alto livello d’istruzione che emigrano all’estero”, queste le sue parole in merito al piano di rilancio per il Sud e per i giovani in fuga dal Belpaese.

Quella della mia generazione è una frustrazione ed un malessere che ci portiamo dietro costantemente, da anni. Non è facile non riuscire a fare alcun tipo di progetto, che sia personale o professionale, non sapendo in quale città vivrai, quella in cui troverai lavoro, mettendo a repentaglio tutto ciò che poi nella tua vita ad un certo punto, anche se giovane, può contare: i tuoi affetti, il desiderio di costruire un rapporto stabile con la persona amata, un figlio o perché no anche due, tre. Anche se sei donna, ad esempio. La possibilità di lavorare ed avere una famiglia, con tempo da dedicare all’uno e all’altro in egual misura, vivendola come una gioia, non una punizione. Tutto questo è relegato al mese del Poi, nell’anno nel Mai.

Nel frattempo si cerca di restare positivi, si prova a combattere strenuamente per andare avanti. Ci si mette in gioco, si impara anche gratis, si prova a costruire. E quindi scusateci se spesso siamo irriverenti, se siamo stanchi, se siamo disillusi. Credo che gli ideali vadano di pari passo con una trasposizione degli stessi nella realtà. Altrimenti restano un’utopia.

Cosa diceva Eduardo Galeano dell’utopia? “L’utopia è là nell’orizzonte. Mi avvicino di due passi e lei si distanzia di due passi. Cammino 10 passi e l’orizzonte corre 10 passi. Per tanto che cammini non la raggiungerò mai. A che serve l’utopia? Serve a questo: perché io non smetta mai di camminare.E, anche se continuiamo a farlo, camminare non ci basta più. Vogliamo correre, vogliamo arrivare almeno ad una destinazione e lì, come tutti, fermarci un attimo e guardare anche noi il mare.

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