Piange l’anagrafe

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Come sono cambiati i criteri di attribuzione del nome ai nuovi nati! La regola consolidata è stata per secoli quella di trasferire ai figli il nome dei progenitori. Questa prassi, nata in ambito nobiliare, rispondeva all’esigenza di dare una continuità, leggibile da parte di tutti, all’identità della stirpe o del casato. Un’esigenza simile spingeva allo stesso comportamento anche le classi contadine per radicare la presenza della famiglia sulla terra che lavoravano.

A questa regola si affiancavano altri criteri, come quello di dare il nome del santo patrono del paese di nascita o quello del santo del giorno. E tuttavia la grande prolificità, che caratterizzava le passate generazioni, lasciava lo spazio ad una libera scelta per quelli che nascevano dopo aver soddisfatto il rispetto dei canoni appena accennati.

I nomi non mancavano e neppure i santi. Piero Bargellini, intellettuale esperto in materia di religione (qualcuno lo ricorderà per un breve spazio radiofonico quotidiano da lui curato proprio sull’argomento a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta), è anche autore di un corposo volume dal titolo “Mille Santi del giorno” nel quale, calendario alla mano, vengono elencati circa 1.200 santi, ciascuno dei quali corredato di cenni storici e biografici. Tolte le inevitabili ed insospettabili ripetizioni dovute alla presenza di più santi col medesimo nome, tra i quali spiccano 38 Giovanni, 23 Pietro (Paolo si ferma a 8), 20 Maria, 11 Antonio, altrettanti Francesco e 10 Giovanna, rimaneva un ventaglio non inferiore ai 500 nomi utilizzabili, almeno in teoria.

In pratica, fatti salvi i gusti di chi voleva essere originale a tutti i costi sobbarcandosi anche il rischio di essere odiato dal discendente vittima della sua originalità, quel numero andava dimezzato ma lasciava comunque un ampio margine di scelta. Erano invece assenti dall’elenco quei santi IGT (a indicazione geografica tipica) patroni di specifici paesi o espressione di ristretti territori come, qui da noi, Procolo, patrono di Pozzuoli, ma anche Catello di Castellammare di Stabia, Castrese di Marano di Napoli, Sossio dell’avellinese ed anche Strato che, forse in ragione di un antico insediamento ellenico, vige tuttora esclusivamente a Posillipo. Il volume testimonia tra l’altro della prodigalità con cui la Chiesa ha santificato per secoli, fino alle ultime santificazioni di Padre Pio e di Papa Wojtyla.

Ma nel 1977, epoca a cui risale l’elenco formulato da Bargellini, già la tradizione era stata scossa. I nomi inevitabili ma sgraditi erano stati ridotti, nell’uso corrente, a più digeribili diminutivi andandosi ad aggiungere alle forme contratte di origine popolare già presenti da molti decenni, come Franco e Ciccio per Francesco, Pino per Giuseppe, Gigino per Luigi, Nello per Aniello, Mena per Filomena, Sisina per Luisa, Lina per Raffaela, ma anche Totonno per Antonio e Totore per Salvatore. E allora Gennaro fu sostituito da Rino, valido anche per il desueto Ottorino e chissà per quanti altri, Pasquale fece spazio a Lino, Salvatore a Salvo o a Sasà, Assunta divenne Tina, Concetta Titti, Maria Immacolata fu ridotta ad Imma e così via.

Un altro modo per valorizzare i nomi femminili più ordinari fu il sempre più diffuso ricorso al nome composto, che si avvaleva per lo più dell’ausilio di Maria, più raramente di Anna e Rosa. Il doppio nome nobilitava non poco: Maria Antonietta, Maria Giuseppina, Maria Teresa e però anche Anna Maria, Maria Laura e Maria Francesca facevano un bell’effetto.

Negli anni Ottanta cominciò a farsi strada la globalizzazione ed entrarono in campo deformazioni per lo più anglicizzanti: Gennaro diventò Genny, Assunta Susy, Maria Mery. Quanto ai nomi di battesimo ci fu l’ingresso travolgente di nomi per lo più femminili dall’estero: valanghe di Natascia, Marika, Samantha, Deborah (rigorosamente con l’acca finale) invasero gli uffici dell’anagrafe anche perché utilizzati nelle classi più popolari, catechizzate dai primi “serial” televisivi. La contaminazione esterofila dei nomi maschili l’aveva preceduta di poco, ma interessava più le élites post-sessantottine: gli Ivan, i Manuel, gli Igor, i Vladimir non furono poi tanti e rarissimi furono i Karl (da Marx) e i Geronimo, mentre qualche anno dopo sopraggiunse una marea di Diego, di origine chiaramente calcistica.

Gli sviluppi più recenti però allarmano. In particolare lo “star system” impone con la sua pervasività una sorta di autocolonizzazione volontaria in virtù della quale molti italiani, per lo più appartenenti alle fasce più popolari e culturalmente sguarnite, prendono a modello gli Stati Uniti in fatto di imposizione del nome. Il solo argine a questo fenomeno è l’art. 34 del D.P.R. 3 novembre 2000, n.396 – Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile – che al comma 1 dispone: “È vietato imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, di un fratello o di una sorella viventi, un cognome come nome, nomi ridicoli o vergognosi”. Questo ci proteggerà per un certo tempo dal vedere in giro soggetti che si chiamano Mario Junior o Filippo Junior, cosa che avviene correntemente negli Stati Uniti, salvo poi diventare tutti Junior e basta.

Ma già da oggi assistiamo, specialmente nelle zone urbane più popolari, al continuo richiamarsi tra Kevin, Jennifer, Brian, Jasmine, Britney pronunciati, com’era prevedibile, in maniera corrotta. La prossima partita di nomi che importeremo dall’estero potrebbe essere costituita da nomi di città, come Sidney, Dallas, Phoenix o di stati confederali, come Dakota, Colorado o Arizona, sperando che rimangano tali anche da noi e non diventino Roma, Napoli o Sorrento, Lazio o Liguria (“Italia“ è finalmente uscita dal giro dei nomi, così come il “sovranista” “Italo”). Un accenno merita anche il vezzo, limitato alle famiglie più raffinate o presunte tali, di integrare il nome, per lo più Maria, con appendici vagamente evocative come Maria Sole, Maria Luna, Maria Neve e Maria Luce.

A tutti questi giovani e fantasiosi genitori, spesso tra loro in disaccordo su questa scelta, ricordiamo in conclusione che l’imposizione del nome è una cosa seria. È intorno al nome che si costruisce l’identità di ogni persona: non a caso i bimbi al primo incontro chiedono: “come ti chiami?” E quindi è qualcosa che dovranno portarsi dietro per tutta la vita, possibilmente senza imbarazzo. Sarà dunque necessario evitare nomi che richiamino personaggi storici troppo impegnativi, scongiurando così ogni sospetto di inadeguatezza, che certamente può sorgere negli U.S.A. se chiami tuo figlio col tuo stesso nome: è come istituire un immediato confronto che può rivelarsi disastroso (si pensi alla distanza che corre tra George Bush padre e George Bush figlio).

Sono rischiosi anche quei nomi che possono contrastare con l’aspetto fisico che il neonato potrebbe acquistare da adulto: rifuggite dall’imporre il nome “Alice”, che calzerebbe malissimo ad una fanciulla un po’ in carne, così come quello di “Olivia”, filiforme compagna di Braccio di Ferro. Con un occhio, si intende, anche ad evitare nomi che possano suscitare atti di bullismo o di razzismo. In teoria il nome dovrebbe darselo il figlio stesso, che sceglierebbe quello che più gli sembrasse idoneo ad identificarlo. Non essendo ciò possibile, nulla tuttavia gli impedirà, una volta cresciuto, di riparare ad una denominazione ritenuta inadatta, né più e né meno di come fanno ormai da tempo molti giovani infliggendosi tatuaggi illustrativi, piercing in posti impensabili e, negli ultimi tempi, anche interventi di chirurgia estetica. Insomma, ci avviamo all’epoca dell’identità mutevole (o, se preferite, liquida).

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