A che serve la religione?

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Elaborazione grafica di N. Neiviller

La religione, qualunque religione, in particolare le grandi religioni monoteiste, hanno da sempre rappresentato un elemento divisivo. Sebbene il termine di per sé voglia dire “unire insieme”, non c’è mai stata nella Storia forza più dirompente e fomentatrice di divisioni e conflitti della religione. Sebbene oggi il suo ruolo nella società contemporanea sembri essersi attenuato, con l’eccezione di alcune frange fanatiche dell’islamismo, non si può non ricordare che le grandi guerre del passato, i grandi tabù che ancor oggi incidono fortemente su alcuni aspetti del comune sentire, sono frutto dell’influenza della religione.

È singolare constatare che la religione che ha esercitato il ruolo più negativo, fra le tante, è proprio quella che attribuisce la sua fondazione a un uomo che, per la sua mitezza, fu definito “l’agnello di Dio” e il cui insegnamento, con qualche eccezione, fu improntato alla ricerca della pace e della concordia fra gli uomini. La religione ha costituito un comodo alibi per le efferatezze umane e per alcune distorte visioni dei rapporti fra i popoli. Si prenda, per esempio, la piaga dell’omofobia che affligge in par condicio tutte e tre le religioni monoteiste: il cristianesimo, l’islamismo e l’ebraismo; tutte e tre trovano le loro radici nell’antica religione d’Israele, nella quale, per decreto divino, l’omosessualità era considerata un delitto contro Dio; basti pensare a Sodoma e a Gomorra e alle regole stabilite nella Torah nei riguardi di queste persone. Ancor oggi, sebbene nel mondo occidentale le cose siano profondamente cambiate, persiste un forte pregiudizio; pregiudizio che assume forme violente nel mondo islamico. Perfino un uomo di grande cultura come Paolo di Tarso non mancò di lanciare i suoi strali nei confronti degli “uomini che giacciono con gli uomini”.

Che dire, poi, delle guerre? Sebbene non sia di dominio comune, è un fatto che gli antichi popoli “pagani”: i babilonesi, gli assiri, i persiani e i romani dei tempi dell’impero non combatterono mai guerre di religione; a loro andavano bene tutti gli dèi, e non si facevano uccidere per essi, li accoglievano tutti nel loro Pantheon. I primi a mascherare le guerre di conquista sotto l’ègida della religione furono gli ebrei che, al tempo di Giosuè, per strappare la terra ai suoi legittimi proprietari, i cananei, si inventarono la fola che era Dio ad averglielo comandato proprio perché si trattava di un popolo che adorava altre divinità e pertanto, poiché il Dio d’Israele era un Dio “geloso”, bisognava con la forza delle armi sterminare chiunque non credesse in lui. Da Israele il testimone passò al cristianesimo che, sin dai suoi primi passi, mostrò una insopprimibile tendenza alla divisione. Già nel primo secolo, le sette che si originarono da esso erano decine, l’una contro l’altra armate, e con il trascorrere del tempo, le divisioni divennero conflitti che duravano decenni e che videro milioni di morti, al grido di “Deus vult!”, così coprendo con la volontà di Dio alcuni fra i più spaventosi genocidi dei due trascorsi millenni. Come non ricordare la famigerata notte di san Bartolomeo che lastricò di sangue le strade di Francia, sangue di cristiani che si definivano cattolici da una parte e ugonotti dall’altra.

Ma non solo le guerre sono state un retaggio della religione, lo sono anche alcune profonde distorsioni nei rapporti sociali che si sono riverberate fino ai nostri giorni. Si prenda, per esempio, la piaga dello schiavismo. Basta leggere la Scritture Cristiane, il cosiddetto Nuovo Testamento, per rendersi conto che il grande “apostolo delle genti” era un sostenitore della schiavitù e a un cristiano, schiavo fuggiasco, chiese di ritornare sotto il suo padrone, legittimando così questa tremenda piaga sociale. Ma non basta. Oggi si parla tanto di violenza degli uomini nei confronti delle donne, di femminicidi, di discriminazioni sui luoghi di lavoro, nei quali le donne sono sottopagate rispetto agli uomini e, fino a poco tempo fa, alle donne non erano concessi pari diritti costituzionali; basta pensare al diritto di voto, recente acquisizione in occidente. Da dove proviene tutto questo? Basta rileggere con attenzione i Dieci Comandamenti per rendersi conto che la donna era considerata una proprietà dell’uomo, come un asino o uno strumento di lavoro. Duemila anni dopo, nel primo secolo, nella comunità cristiana alle donne era proibito insegnare, prendere la parola nei consessi religiosi; esse dovevano portare sul capo un velo in segno di sottomissione all’uomo; così spiega sempre il vero fondatore del cristianesimo: san Paolo. Qualcuno avanzerà l’obiezione che si trattava di comportamenti determinati dalla società di quel tempo, che erano il comune sentire di quei popoli; ma ci si dimentica che, quando Paolo parlava, asseriva di farlo nel nome di Dio, di avere “lo spirito di Dio” e, quindi, o era lui che parlava di sua iniziativa, o dovremmo concludere che il Dio dei cristiani era misogino, schiavista, intollerante.

Oggi, al soglio di Pietro, abbiamo un papa, Francesco, che più di ogni altro suo predecessore dedica ogni sforzo alla predicazione del “Dio unico” nel tentativo di affratellare i popoli che per secoli sono stati, e sono, divisi dalle differenze di credo. È un tentativo lodevole, ma che già all’interno della sua stessa chiesa trova forti resistenze e opposizione. Fa tenerezza vedere come quest’uomo, da anni, si affaccia sul sagrato di piazza san Pietro per invocare dal suo Dio unico interventi miracolosi che pongano fine alle guerre, alle epidemie, alla malvagità umana, alle divisioni fra gli uomini, nonostante mai, proprio MAI, sia giunta una risposta alle sue richieste, indirizzate al Dio supremo, a suo Figlio, alla Madonna e alla pletora di Santi. Una persona comune potrebbe porsi la domanda: ma se Dio non risponde mai alle richieste del vicario di Cristo, se non una delle sue accorate preghiere ha mai avuto risposta, è possibile che non ci sia nessun Dio ad ascoltarlo? Il papa e gli altri uomini di fede non si pongono nemmeno il problema; per essi le vie di Dio sono imperscrutabili ed è blasfemia solo il voler pensare di giudicare il silenzio assordante di Dio: avrà le sue buone ragioni che a noi non è dato comprendere. Nel secolo scorso il filosofo ebreo Hans Jonas si pose il problema del silenzio di Dio ad Auschwitiz con la famosa domanda: Dov’era Dio ad Auschwitz? Domanda che si ripropone quotidianamente in ogni parte del mondo dove milioni di bambini muoiono innocenti, milioni di persone vengono torturate, uccise, vilipese. Comoda risposta è quella che il responsabile di tutto questo è un antico e potente angelo di nome Satana il Diavolo che, come disse Pietro, “come un leone ruggente cerca di divorarci”; ma è un pannicello caldo nel quale non crede quasi più nessuno. La religione è un comodo alibi per non assumersi la responsabilità del male, scaricando la colpa sul “nemico di Dio”. Ci impedisce di guardare in faccia la realtà: il male è una nostra scelta, non c’è nessun Diavolo che opera nell’oscurità. Siamo noi che dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e agire per il bene comune. La religione non serve. Si deve smettere di sperare in ricompense celestiali ultraterrene come premio per le sofferenze terrene. Tutto ciò che va fatto a favore dell’uomo, lo deve fare l’uomo, qui e ora. Chi vuole continuare a sperare in un intervento soprannaturale, come nella prossima fine di un mondo malvagio ad opera di Dio, o al godimento eterno del volto di Dio nell’aldilà, è certamente libero di crederci, ma non servirà a cambiare di un apice lo stato delle cose su questa terra.

1 commento su “A che serve la religione?”

  1. Insomma, come disse un noto filosofo contemporaneo “Si faccia una domanda, si dia una risposta”. Qui ci sono entrambe: non c’è nulla da aggiungere.

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