Non c’è molto da raccontare. Una volta assuefatti alla “Fase 2” la vita procede senza una vera e propria monotonia ma scandita dalla ripetizione sistematica di azioni abituali. Di tanto in tanto qualche piccolo evento inconsueto increspa la superficie liscia di questo scorrere lento ed uniforme.
L’altra mattina, e non è la prima volta, mi è cascata la pillola che avevo appena estratto dall’astuccio. Ora, diciamocelo pure, alcune pillole in circolazione hanno pressappoco la dimensione di un seme di melone. Quando una pillola siffatta, concepita dalla mente malata di uno che sta bene e quindi non deve prenderne, ti cade di mano è un’impresa recuperarla: si va a ficcare negli anfratti più impenetrabili e, se il pavimento è chiaro, si mimetizza, circostanza che induce alla bestemmia o all’improperio verso l’autore di questa vera e propria mascalzonata nei confronti degli anziani, principali destinatari dei farmaci e spesso non più dotati di una vista all’altezza della situazione.
E allora succede che tra una bestemmia e l’altra il tuo pensiero vada a quei bei “pasticconi” di sessanta e più anni fa per ingoiare i quali bisognava avvolgerli in un’ostia bagnata. Ricordate? Le ostie si vendevano per questa ragione anche ai “laici”. Si riaffaccia però alla memoria anche la siringa della stessa epoca, precedente all’uso della plastica: più che un attrezzo terapeutico si trattava di un vero e proprio strumento di tortura. Quando da piccolo dopo la visita il medico diceva che era necessario, ahimè, fare le iniezioni, ti sentivi sprofondare.
E la tortura veniva messa in atto secondo un rituale preciso e inesorabile: all’ora convenuta “l’infermiera” entrava in casa salutando e cercando con lo sguardo la vittima per assicurarsi di non essere venuta a vuoto. L’infermiera, ma tu ignaro fanciullo non lo sapevi, negli anni Cinquanta non era neanche lontanamente diplomata né aveva mai messo piede in un ospedale in veste di operatrice sanitaria: però nel quartiere le veniva riconosciuta una competenza probabilmente acquisita sul campo (altrui) con molta pratica e chissà quante maledizioni da parte di chi le aveva fatto da cavia.
Dopo l’ingresso in casa la fase successiva comportava che la “siringara” si recasse in cucina e qui, terza fase del macabro rituale, estratto dalla borsa un pentolino rettangolare dotato di coperchio con dentro la siringa di vetro e l’ago da avvitare sul suo beccuccio, lo metteva sul fuoco a bollire dopo averlo riempito con l’acqua del rubinetto. Durante la bollitura la tua ansia cresceva di minuto in minuto, per niente alleviata dalla conversazione che l’infermiera intratteneva intanto con tua madre, tuo padre o chi ne faceva in quel momento le veci. Non si dimentichi, tra l’altro, che la figura popolare della siringara era seconda solo alla pettinatrice, la famosa “capera”, quanto ad istigazione al pettegolezzo.
La fase successiva era quella dell’aspirazione del farmaco dalla fiala, previa apertura con l’apposito seghetto, e se c’era da sciogliere un preparato in polvere in un solvente, la miscelazione avveniva nel flacone contenente il preparato in polvere iniettandovi il solvente ed estraendo poi il farmaco da iniettare. Questa operazione veniva effettuata usando due volte il medesimo ago che ti avrebbe poi trapassato un gluteo a tua scelta (unica libertà concessa).
Lo straziante cerimoniale proseguiva poi col trasferimento di tutto il terzetto in camera da letto, una sorta di marcia al patibolo il cui epilogo era l’assunzione da parte del condannato di una posizione supina e a pancia sotto. Era questo il momento in cui la tensione raggiungeva il culmine perché una volta steso sul letto non c’era più scampo un po’ come per il condannato a morte dal momento in cui aveva posto il collo nell’incavo del supporto su cui sarebbe poi calata la mannaia. Qualcosa di simile a quel che si prova con i dentisti di nuova generazione, i quali preferiscono operare da seduti ed a questo scopo ti invitano ad accomodarti in una sorta di lettiga dalla quale ti sarà difficile fuggire. Fortuna che i trapani hanno fatto progressi.
Tornando all’iniezione anni Cinquanta, la diabolica procedura si concludeva con una sequenza terribile: detersione della “parte” prescelta con batuffolo di ovatta imbevuta di alcol alla quale seguiva, sadico ed immancabile, l’invito, se non l’ordine, di non indurire il muscolo. E poi finalmente, zacchete, introduzione risoluta dell’ago spuntato dall’usura nella carne viva, lieve aspirazione (facoltativa per alcune siringare) per verificare che l’ago non fosse finito in vena e quindi lenta e graduale inoculazione del farmaco che più oleoso era e più faceva male. E quel trauma infantile ti accompagnava fin quando da ragazzo, se non addirittura da giovanotto, ti obbligavano ad un prelievo venoso (come nel caso della chiamata alla leva militare): capitava puntualmente che qualcuno venisse meno durante l’operazione e che l’infermiere dovesse farlo rinvenire con un buffetto. E quindi, finita la meditata evocazione di un passato non proprio da rimpiangere, sono costretto ad accordare la mia preferenza alla pillolina invisibile.