È una radiosa mattina della “Fase 2” e sono appena uscito – munito di mascherina chirurgica e guanti monouso – per fare la spesa settimanale. Mi inoltro nel dedalo di vicoli intorno a casa e m’imbatto in due adolescenti – uno bruno e alto, l’altro biondo e paffuto – che chiacchierano allegramente a distanza di sicurezza ma senza mascherine. Noto i libri che entrambi hanno sottobraccio, decido di fermarmi davanti a loro e dico sorridendo: «Salve, ragazzi, sapete che è obbligatorio indossare le mascherine? Rischiate di essere sanzionati.» Il bruno, guardandomi con sufficienza, mi fa: «Lo sappiamo, ma noi non le indossiamo per protesta». Ed io, sorpreso: «Per protesta? E contro chi?» Il giovane si fa serio e attacca: «Per protesta contro le istituzioni che non ci dicono la verità: all’inizio, per settimane, tante “voci autorevoli” hanno dichiarato che le mascherine non servivano; ora ci multano se non le indossiamo». Il biondo, a questo punto, incalza: «E poi, perché ci impartiscono divieti illogici: niente jogging da soli, niente partite a tennis; le istituzioni ci trattano come fanciulli discoli, considerati incapaci di ragionare. Noi non apparteniamo a un popolo bue, a una massa di individui ottusi, privi di capacità critiche e facilmente influenzabili; perciò, per protesta, non indossiamo le mascherine! E ora la salutiamo perché dobbiamo andare a studiare: abbiamo l’esame di maturità». Balbetto un saluto e li vedo scomparire dietro un angolo. Proseguo per la mia strada, ma rimugino sulle parole dei due maturandi.
Effettivamente, le istituzioni di governo avrebbero potuto fin dall’inizio dell’emergenza Covid-19 ammettere pubblicamente che, pur esistendo da oltre un decennio un “Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” (che definiva obiettivi ed attività da realizzare per evitare di trovarci travolti dalla pandemia), nessun principio di precauzione era stato applicato per far fronte ai potenziali pericoli (per esempio, stoccaggio di dispositivi di protezione individuale, tamponi ecc.). Quindi le istituzioni hanno inizialmente dovuto confrontarsi con una seria penuria di mascherine e altri dispositivi; il problema che si poneva era: meglio se i cittadini non se li accaparrano, affinché ne rimangano per gli operatori sanitari in prima linea nella lotta al coronavirus. Ma ci si poteva fidare che assumessero un comportamento così virtuoso dei cittadini che alla prova dei fatti, appena è trapelata la notizia che la Lombardia sarebbe stata dichiarata “zona rossa”, si sono ammassati sui treni per allontanarsi da Milano e andare a contagiare altre parti del Paese?
Nella “Fase 1” della pandemia le istituzioni hanno preferito dare ai cittadini solo permessi o divieti categorici; in effetti si sono comportate come quel genitore poco accorto che non fa capire al figlio le ragioni delle regole che gli impone. Facendo leva sulla paura del contagio, che ha facilitato l’obbedienza, le istituzioni hanno proibito attività sane (corse in solitaria in campagna o in montagna) e ricreative sicure (tennis) allo scopo di poter meglio contenere e reprimere attività insulse e malsane. Quindi non si è spiegato ai cittadini che, ammettendo la non pericolosità di alcune attività e comportamenti, si sarebbe data la stura a polemiche sull’opportunità di vietarli.
Questa strategia comunicativa, imperniata sulla convinzione che i cittadini compongano un “popolo bue”, o troppo distratti per capire o troppo indisciplinati per adottare i comportamenti più responsabili, non si può applicare alla “Fase 2”, che richiede regole chiare e sensate a cominciare dalle procedure da attivare per gli esami sierologici per cercare anticorpi IgG e IgM al Covid e per lo screening coi tamponi. Proseguire sulla falsariga della strategia comunicativa adottata nella “Fase 1” alla lunga logorerebbe la fiducia dei cittadini, soprattutto di quelli che non si sentono parte di un “popolo bue”. Insomma, ora occorre fare appello alla responsabilità individuale dei cittadini.
Finora troppi sono stati i segnali di scarsa affidabilità anche di organi tecnici: l’impossibilità di conoscere l’effettivo numero di decessi dipendenti dal Covid-19; la confusione sul numero dei contagiati; la scarsa attenzione riservata a tanti infettati e/o asintomatici rimasti in casa fino ad oggi senza sentire la vicinanza delle strutture sanitarie preposte alla loro cura. Più passa il tempo e meno ci si potrà trincerare dietro la pur legittima motivazione che una pandemia così nessuno l’aveva vista prima. Se le istituzioni non spiegheranno seriamente cause ed effetti, milioni di cittadini che si sono finora regolati in base all’idea, non sempre esatta, che tutto il vietato fosse pericoloso, ora si potrebbero regolare in base all’idea che tutto il permesso sia innocuo, comunque lo si attui. Per giunta il vuoto argomentativo potrà facilmente essere colmato dal bailamme dei social media, con conseguenze imprevedibili e con buona pace di ogni invito al senso di responsabilità.