Per un lavoro da “festeggiare”

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Manifestazione per il primo maggio in Italia,
negli anni Cinquanta (Fonte: Wikipedia)

La primavera, stagione di transizione e incerta per eccellenza, è segnata quest’anno oltre che dalle bizzarrie metereologiche anche dai tanti dubbi su come e quando si allenteranno le misure restrittive alla mobilità delle persone. “Abbiamo una conoscenza molto approssimata del presentescrive David Hand in “Il caso non esiste” – e mai come oggi, il 1° maggio, la festa dei lavoratori, acquista centralità per comprendere e affrontare i problemi del lavoro.

Ci siamo trovati costretti nel chiuso delle nostre case. Famiglie, amori e amici separati, giovani e meno giovani in solitudine o in compagnia a brigare con attività di studio e lavoro catapultate nelle nostre abitazioni, almeno per i più fortunati, tutti in ansioso ascolto dei numeri sulla diffusione del contagio, dei morti e dei guariti. Altri, i meno fortunati, si sono ritrovati senza lavoro, senza la loro piccola attività artigianale, senza reddito ed è difficile immaginare la loro condizione di estrema difficoltà e disagio.

La cronaca ci ha raccontato che, nello svolgere le attività lavorative dedicate alla cura e alla salute delle persone, è possibile che ci si possa ammalare e perdere la vita, una ipotesi prima contemplata solo per chi si recava all’estero dove infuria la guerra o nei paesi del terzo mondo devastati dalle epidemie dei poveri. Una situazione aggravata dalla cronica mancanza di personale e di strumentazioni che ha costretto a turni interminabili e a una eccessiva esposizione all’infezione, per le scelte sbagliate di disinvestimento nei settori della sanità pubblica, ma resta il fatto che abbiamo contato tanti, troppi, morti sul lavoro. Oggi è necessario un ripensamento delle strutture ospedaliere come luogo esclusivo di cura e assistenza sanitaria e ritorna con insistenza la concezione di una efficiente medicina territoriale per la prevenzione e la cura.

Ci si è “accorti” dell’importanza dei migranti, descritti ora come gente “abituata alla fatica”, capace e consapevole del lavoro che gli si affida in agricoltura, nella raccolta e nella semina, nella cura del bestiame, ignorando che per fare qual lavoro molti di loro, costretti da condizioni di bisogno, hanno accettato di cancellare anni di studio e specializzazioni. La loro presenza si è dimostrata indispensabile anche nelle nostre case per assistere parenti anziani che si sono salvati perché trattati meglio di tanti altri abbandonati negli ospizi, luoghi che se pur mascherati dalla loro asettica sigla – RSA – in troppi casi si stanno rivelando orribili.

I “rider”, i fattorini addetti alla consegna a domicilio di cibo e quant’altro, che per quattro soldi scorrazzano in bicicletta o in motorino per le nostre città, d’inverno come d’estate, sotto la pioggia battente o sotto il solleone, hanno continuato a consegnare in tempi incredibilmente rapidi i mille oggetti che abbiamo ordinato sul web.

Gli impiegati stanno lavorando anche senza marcare il cartellino e si scopre che contro i furbetti non serve la sorveglianza fisica e ravvicinata ma un’organizzazione che opera su obiettivi certi e verificabili e utili alla comunità, tecnologie pertinenti e adeguate allo scopo e conseguentemente una responsabilità di tipo orizzontale, un sistema meno burocratizzato, con meno capi e capetti il cui ruolo si sta dimostrando il maggiore ostacolo perché le cose funzionino. È emersa con più forza la scandalosa differenza che esiste nel mondo del lavoro tra chi, pur svolgendo la stessa attività e mansione, ha trattamenti differenziati nel salario e nei diritti.

Il lavoro delle donne e degli uomini, quello senza aggettivi – manuale, intellettuale, a nero, a tempo determinato, a tutele crescenti, stagionale, autonomo, semiautonomo, dipendete o indipendente – torna a mostrarsi in tutta la sua potenza costruttiva, torna al suo valore fattuale, riemerge dalle nebbie di una definizione e di una valutazione legata esclusivamente al suo costo.

Forse si è stati troppo approssimativi e frettolosi nell’immaginare come imminente la fine del lavoro, tra l’altro in netta contraddizione con l’idea che sia possibile continuare a lavorare fino a tarda età in maniera indifferenziata, e nel descrivere in modo martellante e insistente la nostra come una società ormai liquida,fatta di relazioni superficiali e intercambiabili.

Dietro le quinte della nuova grande trasformazione digitale ci sono donne e uomini che progettano i sistemi informatici, che costruiscono le macchine digitali, che elaborano programmi e sistemi che rendono possibile la condivisione. In queste settimane è ormai evidente, anche al più inesperto degli utenti, che se non si riesce ad accedere e a interloquire con il sito del proprio comune, della propria regione, o di un ministero o di un qualsiasi altro ente per usufruire di un servizio, la colpa non è delle macchine né del software ma dei tanti vincoli, delle tante norme, delle tante gerarchie che ostacolano, danneggiano e sabotano ogni processo di modernizzazione, comunicazione e semplificazione. Come aveva ben analizzato Stefano Rodotà, non c’è informatizzazione delle attività lavorative senza una loro riorganizzazione.

Quando una classe dirigente legifera come se dovesse far quadrare i conti di un condominio, può capitare di ritrovarsi con: un numero eccessivo di lavoratori anziani che rischiano di costituire un freno alla riapertura di tante attività per la loro dimostrata fragilità; ambienti lavorativi strutturalmente e atavicamente insalubri; servizi di trasporto non sufficienti ai fabbisogni. Tutti problemi preesistenti a questa pandemia che li ha accentuati e posti in evidenza.

In questa così complicata situazione ogni semplificazione è, oltre che irritante, sterile. La sdolcinata attenzione che una certa informazione dedica a chi fatica e ai tanti fino ad oggi invisibili non può bastare; come anche le azioni caritatevoli di persone di buon cuore non sono sufficienti, sicuramente comportamenti più nobili di quelli dei ricchi di Nairobi, in Kenia, che con cinismo hanno manifestato la loro contrarietà al lockdown imposto dal governo per il terrore di doversi occupare della gestione delle loro case.

Né siamo aiutati a capire le semplificazioni che ci vengono proposte, quando queste vengono estrapolate da un quadro molto più analitico e articolato: è quello che abbiamo colto ascoltando Paolo Pagliaro che ha “adattato” al contesto italiano le considerazioni di Michael J. Sandel, che ha ridotto ad una versione moderna il discorso del senatore Menenio Agrippa apologo delle membra e dello stomaco”, durante la Secessio plebis nell’antica Roma. L’impegno richiesto è ora quello di srotolare la matassa, riannodare tanti fili spezzati e tessere nuove trame.

C’è un filo rosso che lega tre storiche ricorrenze: 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio. Decine di donne morte nell’incendio della loro fabbrica perché il padrone le aveva rinchiuse per meglio controllarle; la Liberazione dal nazifascismo e la grande alleanza che poi permise la costruzione della nostra Costituzione; il 1° maggio, festa dei lavoratori, che suggella la visione di una società civile fondata sul valore e rispetto del lavoro.

I sindacati, gli imprenditori e il Governo in Italia hanno stilato un primo accordo per garantire il ritorno al lavoro “in salute e in sicurezza”. Un percorso lungo e impegnativo. Le resistenze sono tante e alcune provengono da una classe politica inadeguata, litigiosa, concorrenziale, che anche in tempo di emergenza nazionale sembra preoccupata solo di cogliere la pagliuzza nell’occhio del rivale elettorale, pur di occultare le proprie responsabilità.

Prossimamente, dopo aver recuperato risorse dall’Europa e da una gestione in deficit del bilancio dello Stato, si spenderanno tanti soldi pubblici. Il rischio che vengano sprecati è elevato e che si cerchi di realizzare il tutto come era prima è qualcosa di più di una preoccupazione. Alcuni segnali li abbiamo già visti nella costruzione di costose mega strutture sanitarie poi rimaste inutilizzate, i tanti ordinativi di mascherine non omologate, e poi il grande business delle sanificazioni degli ambienti di lavoro. Tutte scelte operate nell’ottica dell’una tantum non provando neanche ad aggredire i veri punti di crisi. Il rischio è che si rimanga in una logica emergenziale anche per quanto riguarda la questione non più rinviabile di un massiccio potenziamento e ammodernamento delle reti informatiche.

Lavorare stanca, ammala e può uccidere, se non svolto in sicurezza e in ambienti salubri. Il 1° maggio non è una ricorrenza da celebrare con slogan e da quest’anno diventerà una scadenza di verifica degli impegni sottoscritti non più rinviabili alle calende greche. Riprogettare ambienti di lavoro salubri significa riprogettare il lavoro e armonizzare i suoi tempi con il resto della vita.

Buon Primo Maggio a tutti.

1 commento su “Per un lavoro da “festeggiare””

  1. Forse qualcuno avrà notato ieri su rai3 il film su Karl Marx, ebbene finché la rappresentanza dei lavoratori sarà in mano alla borghesia, e per me gran parte dei vertici tale è, che dietro la facciata fanno i loro interessi, quanti di loro a fine carriera hanno avuto incarichi di prestigio e ben remunerati, inseguendo i voti che li perpetuino insieme ai loro vertici locali, anch’essi partecipi nel deprimere i veri lavoratori proteggendo quanti screditano la categoria.
    Finché il privato sarà più rilevante del pubblico, cioè il singolo al di sopra dell’insieme, non esiste democrazia.

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