Veramente singolare l’avanzata della xenofobia in Europa, il “vecchio continente”, ricco di cultura, di storia, di tradizioni, di fedi religiose. Perché singolare? Perché il continente in cui questa piaga sembra diffondersi, inarrestabile come un’epidemia fuori controllo, è la patria di tutte quelle nazioni che nel corso degli ultimi cinquecento anni si sono rese protagoniste delle più grandi “invasioni” di terre straniere della storia. Chi oggi vorrebbe alzare barricate contro alcune migliaia di diseredati che abbandonano i loro paesi per sfuggire a violenze, persecuzioni e morte, ha completamente dimenticato che dal 1492 in poi, nugoli di inglesi, tedeschi, spagnoli, italiani, olandesi ecc. hanno lasciato la loro madrepatria per riversarsi a milioni su terre che, legittimamente e da millenni, erano già abitate da popoli con la loro storia, la loro cultura, le loro tradizioni, e che ne erano, dunque, i soli e legittimi proprietari. E se, oggi, i richiedenti asilo non chiedono altro che protezione, accoglienza, e di integrarsi fra le nazioni nelle quali sbarcano, gli antenati dei moderni xenofobi non chiedevano accoglienza né protezione, ma si resero responsabili di alcuni dei più orrendi genocidi della storia, spesso – come nell’America latina – nel nome di un dio che, da stranieri, imposero con la violenza a chi un dio già ce l’aveva. L’America settentrionale era popolata da millenni da decine di nazioni indigene, ciascuna portatrice di cultura, di tradizioni, di spiritualità. Ciò nonostante nessuno xenofobo oggi ricorda, o vuole ricordare, che i suoi antenati, invadendo terre di altri, compirono lo stesso crimine di cui oggi, i loro discendenti, accusano gli odierni immigrati.
L’Italia agli italiani, la Francia ai francesi, la Germania ai tedeschi, è il grido delle destre xenofobe, che non ricordano più che invece dei barconi sgangherati e delle zattere precarie, a suo tempo, da galeoni, corvette, brigantini e navi da corsa, sulle coste del “nuovo continente”, armate ed equipaggiate sbarcarono orde di “stranieri” per impadronirsi di ciò che non gli apparteneva. Orgogliosi di Fiorello La Guardia, di Joe Di Maggio, di Albert Einstein e migliaia d’altri, si trascura che tutte queste persone erano “migranti”, fuggiaschi a cui fu data l’opportunità, come a Enrico Fermi e ad altri, di diventare scienziati di prim’ordine. Chissà quanti Fermi, La Guardia, Einstein potrebbero esservi fra i giovani in cerca di futuro che si spiaggiano sulle nostre coste, se soltanto pensassimo al nostro passato, più o meno remoto! L’America agli americani! America First, prima gli italiani, Germania über alles! Ma i veri americani a cui l’America dovrebbe appartenere sono gli Algonchini, i Chippewas, i Sioux, gli Apaches; certamente non i soldati di sua maestà britannica e le migliaia di coloni che strapparono la terra ai loro legittimi proprietari nel nome della loro supposta “superiorità”.
Cosa sarebbe oggi la Sicilia, se da 3.000 anni a questa parte non l’avessero “invasa” i greci, gli spagnoli, gli arabi, i normanni. Le nostre cose più belle le dobbiamo a loro; la nostra architettura, la nostra arte, i nostri cibi, la nostra lingua, la nostra agricoltura. Quanti potrebbero gustare gli “arancini di Montalbano”, i cannoli del dott. Pasquano e le granite di Scicli, o le meravigliose arance rosse se non ce le avessero regalate gli arabi? Quando noi, invece, insieme agli altri europei, siamo sbarcati in Africa, abbiamo prevalentemente seminato morte, distruzione, sfruttamento, schiavitù, malattie, e in certi contesti continuiamo a farlo ancor oggi.
Il problema principale è che un gigantesco vuoto di memoria collettivo affligge irrimediabilmente le nazioni occidentali, immemori dei loro inestinguibili debiti di riconoscenza verso tutti gli altri, in particolare se di pelle scura. Come fanno gli irragionevoli razzisti degli Stati Uniti a dimenticare che i “negri”, che essi detestano, si trovano lì perché ce li hanno portati loro con la forza, strappandoli alla loro terra, alle loro famiglie, alle loro tradizioni! Quando oggi, sempre più spesso purtroppo, siamo costretti a volgere lo sguardo su raccapriccianti scritte antisemite, o razziste, basterebbe che per un breve istante pensassimo a da dove veniamo noi. Un siciliano come me, per esempio, si renderebbe conto che la lingua di cui ogni giorno fa uso è fatta di normanno, arabo, greco, che pronunciamo senza nemmeno rendercene conto quando chiamiamo “armùar” l’armadio, “’u pitterra” l’impiantito (da parterre), “gebbia” la vasca per l’acqua di irrigazione, “sceccu” l’asino (da sheick), “paltò” il cappotto; oppure se ci rechiamo in visita nella splendida Caltagirone (Qal’at-al-ghiràn) o a Calatafimi (Qal’at al-fimi); o quando sfogliamo un testo di chimica (al kimiaa) o di algebra (al-gabr). Le cose più belle del nostro passato sono tutte frutto di “stranieri” cui dobbiamo il nostro patrimonio artistico: il teatro greco di Siracusa e quello di Taormina, la cattedrale arabo-normanna-bizantina di Monreale, la valle dei templi di Agrigento; eppure, nonostante con i nostri occhi quotidianamente godiamo di queste bellezze xenoi, delle persone senza cultura, beceri ignoranti del secolo scorso, e incolti buzzurri di questo, hanno elaborato il “manifesto della razza” in difesa di qualcosa che non esiste; la “razza” non è mai esistita, ma nel suo nome folli razzisti xenofobi come l’assassino di Hanau, il folle Breivik, e il folle più folle di tutti, Hitler, hanno compiuto i loro orrendi crimini. La “razza” non esiste, come spiega il grande genetista Luca Cavalli-Sforza; esiste solo la specie: una, la specie umana che, con grande disappunto dei sovranisti d’ogni dove, e particolarmente di casa nostra, ha avuto origine e si è diffusa in tutto il mondo dalle foreste d’Africa. Ne deriva che la xenofobia, nel nome della quale sono stati perpetrati e continuano a compiersi efferati delitti è, prima d’ogni cosa, frutto di una profonda e spesso voluta ignoranza. La realtà delle cose, questa irrazionale paura dello “straniero” che ci “invade” e minaccia la nostra identità, è stata a suo tempo ben descritta e analizzata da Umberto Eco in un suo libro del 2011, intitolato appropriatamente “Costruire il nemico”. Come spiega l’autore, “avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità, ma anche per procurarci un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell’affrontarlo, il valore nostro”. Pertanto, quando il nemico non ci sia, occorre costruirlo e, se volessimo semplificare al massimo, possiamo fare riferimento a due noti personaggi che si adattano perfettamente a questo assunto, nel quale l’uno è specularmente opposto all’altro. Uno è Matteo Salvini. La sua fortuna politica l’ha costruita sull’odio, nelle sue varie gradazioni di forte avversione o profonda antipatia: per l’euro, per l’Europa, per i meridionali (fintantoché gli ha fatto comodo), per i neri, per i gay, per gli zingari, per gli immigrati di qualunque colore. L’odio è la sua cifra distintiva e la ruspa distruttrice il suo simbolo. Dall’altra parte abbiamo papa Francesco che, da sempre, ha cercato di onorare il significato di uno dei suoi attributi: Pontefice, cioè costruttore di ponti. È lui che con la sua predicazione del dio unico cerca di eliminare le barriere fra le fedi; è lui che accoglie i diseredati, che gli apre le chiese, che apre perfino i portici di San Pietro per accogliere i senzatetto. In estrema sintesi ecco i due: Salvini “costruisce il nemico da odiare”; Francesco “costruisce il fratello da amare”. A prescindere dalle nostre idee religiose o dal non averne proprio, e che qui non c’entrano, sta a noi, e a noi soltanto, fare la scelta fra i due modelli.