In un articolo dal titolo “La Giovane Italia” si evidenziava la profonda delusione per la scarsa qualità delle nuove generazioni entrate di recente nella scena politica (la metafora teatrale non è casuale perché i loro principali esponenti cercano tutti, indistintamente, un pubblico plaudente ed, ahimè, ormai già pagante da un bel pezzo e non si sa per quanto tempo ancora).
Nella ricerca dell’applauso a buon mercato è tuttora in testa Matteo Salvini che vanta un consistente distacco sui suoi immediati inseguitori. Di lui si dice che sia sovranista, razzista, seminatore di odio e alquanto approssimativo in materia di rispetto delle istituzioni; lo ha confermato nella recente campagna elettorale calabro-emiliana, compromessa dall’ormai famosa “citofonata al presunto spacciatore”.
Dopo questo episodio sembrava che il distacco dai suoi competitors sulla strada dell’inaffidabilità fosse diventato incolmabile. Invece Renzi e Di Maio lo tallonano. Il primo poteva già vantare un bagaglio impressionante di scelte infelici durante il suo governo: jobs act, eliminazione dell’IMU, una riforma costituzionale fortunatamente bocciata da un referendum spavaldamente personalizzato, così come un progetto di riforma elettorale che, se approvato, vedrebbe oggi il Paese in balia del M5S e della loro inadeguatezza ormai conclamata. Dopo la meritata sconfitta elettorale del 2018 il Nostro non si arrende e pone il veto alla formazione di un governo giallo-rosso aprendo la strada alla sciagurata lievitazione del consenso verso la Lega. Ma quando cade il primo governo Conte è proprio lui a spingere verso l’accordo con il M5S un PD titubante. E probabilmente non per rimediare all’errore commesso un anno prima, ma per riguadagnare la scena perduta. Infatti, giusto il tempo di collocare nel Conte 2 un paio di ministri di sua fiducia e Renzi fonda Italia Viva. Da quel momento, pur proclamando quotidianamente il sostegno al nuovo governo, non fa altro che mettersi di traverso a tante iniziative: si oppone all’aumento dell’IVA sui beni di lusso, sulla plastica e sulle bibite zuccherate, è scettico e poco collaborativo nella campagna per le elezioni regionali. Apparentemente incurante delle conseguenze sulla tenuta del governo, assume quotidianamente posizioni critiche tra le quali spicca ultimamente l’assoluta contrarietà al blocco della prescrizione.
Di Maio non è stato da meno. Contrario anche lui al ventilato aumento dell’IVA sui beni di lusso, contrario ad ogni ipotesi di revisione di quota 100 e del reddito di cittadinanza e finanche dei decreti sicurezza, non ha compreso, o ha finto di non comprendere, che il Conte 2 doveva marcare una discontinuità dal Conte 1. Ha rifiutato le alleanze col PD alle recenti elezioni regionali smascherando il forte calo elettorale del Movimento che la confluenza su un candidato comune avrebbe potuto almeno in parte coprire.
Di questi tre epigoni del giovanilismo in politica Di Maio appare quello più attaccato alla poltrona, con ciò tradendo lui per primo lo spirito originario del Movimento; Renzi si dimise in favore del governo Gentiloni, mentre Salvini lasciò la sua poltrona di ministro sia pure in via, secondo lui, provvisoria fino alla presa dei pieni poteri.
Per schiodare Di Maio dalla direzione politica del movimento non è bastato nemmeno Beppe Grillo ma c’è voluta la silenziosa ribellione di un bel pezzo del Movimento. Quanto agli incarichi ministeriali, nemmeno a parlarne: essendogli negata la vicepresidenza del Conte 2 ha preteso l’abolizione della figura dei vicepresidenti. In proposito, le ultime rivelazioni ci raccontano che Salvini, pentito dopo l’apertura della crisi agostana, propose a Di Maio un secondo governo giallo-verde e l’ipotesi cadde soltanto perché Di Maio ne pretendeva la presidenza. Insomma le ambizioni personali di “Giggino” non sono da meno di quelle di Renzi.
Eppure Di Maio e Renzi si ostinano, come abbiamo visto, a paralizzare l’azione del governo da essi stessi sostenuto impedendogli di esprimere un potenziale che non sarebbe da buttare, specie a favore del sud, considerato che ben 13 dei 24 ministri sono meridionali come d’altronde lo stesso premier. Si rendono conto, nella loro ormai conclamata sete di potere, che le loro picconate impediscono al governo, da loro stessi sostenuto, di recuperare il consenso necessario a presentarsi decentemente alle elezioni a fine legislatura se non prima? Contano forse di ottenere, sempre che passi una riforma in senso proporzionale, un risultato tale da consentire a ciascuno di loro di capeggiare una qualche formazione in grado di condizionare, collocandosi al centro, il futuro governo, di destra o di sinistra che sia? Una reincarnazione dei socialisti di Craxi? Non considerano che l’esiguo consenso su cui potrebbero contare in caso di elezioni condannerebbe entrambi al ruolo di gregari di Salvini? Ruolo che potrebbe anche accontentare dei politici scafati ma non questi due pretenziosi dilettanti. Perché in verità questi tre caballeros non potranno mai cantare in coro, come quelli di Walt Disney: la loro ambizione li vuole disperatamente solisti. E questa per il Paese è una fortuna perché il canto solitario di queste due giovani ex-promesse volge al termine. Speriamo che la loro voce venga meno prima che le loro quotidiane “imboscate” al governo Conte ne determinino la caduta, che oggi potrebbe essere catastrofica per il Paese, visto che Salvini ha ancora fiato. Quanto invece alle finalità dell’agire politico dei tre caballeros, chi pensasse che siano minimamente rivolte all’interesse degli italiani farebbe bene a ricredersi.