“Si vis pacem para bellum”, in che senso?

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«L’Italia ripudia la guerra». Così sta scritto nell’articolo 11 della nostra Costituzione. Ma è ancora vero mentre il mondo si riarma? Mentre il piccone di Trump si abbatte su tutte le istituzioni della legalità internazionale, dall’Oms alla Corte Penale? Mentre le potenze imperiali (Usa, Russia, Cina) si dividono il pianeta? «Si vis pacem para bellum», dicevano i nostri antenati: se vuoi la pace prepara la guerra. È di nuovo questo il motto dell’Europa, del continente di cui facciamo parte? Ma si può ripudiare la guerra preparandosi alla guerra? No, a meno di cacciarsi in un ossimoro, in una contraddizione in termini. Sicché la formula dell’articolo 11 — ha osservato mestamente Achille Occhetto su la Repubblica — è divenuta «una frase sbiadita e quasi irridente».

Come più volte abbiamo scritto in queste pagine, il mondo è cambiato ed è ancora in corso una trasformazione i cui esiti finali è difficile prevedere. Ed ecco perché la nostra Unione ha deciso di assumere delle iniziative che la mettano al riparo da avventure pericolose, perché l’iniziativa non è guerrafondaia e perché non c’è dissonanza tra difesa e pace. La proposta di Michele Serra di un grande raduno in piazza per manifestare non “contro”, ma per l’Europa, segue questo solco; essa vuole ricordare a tutti quelli che l’hanno dimenticato che è l’Europa la nostra più grande conquista, l’àncora della democrazia, ma ancora resta da completarne il disegno politico che le consenta di essere un attore autorevole nel mondo.

Un’Europa incompiuta e immobile è destinata all’emarginazione e quindi all’ininfluenza. In un mondo che si è fatto bipolare, l’Europa, anziché esercitare il suo ruolo di interposizione tra le due super potenze, rischia di fare la fine della noce nello schiaccianoci. E il pericolo si è fatto oggi più concreto, travolti come siamo dall’attuale crisi internazionale; ecco perché una manifestazione che chieda all’Europa di esserci, non condizionata da schieramenti politici, né da bandiere di partito, ma solo da quella blu stellata dell’Unione, è stata una iniziativa pregevole. Lo è in particolar modo per il momento storico che stiamo vivendo, un passaggio cruciale della Storia, un vero ribaltamento del mondo. Non siamo di fronte a un cambiamento ma a una rivoluzione; la nostra storica alleanza con gli Stati Uniti sembra dissolversi. Trump assume una postura aggressiva nei confronti di Paesi membri della Nato, addita l’Europa come un nemico che va combattuto. L’ombrello di protezione americana si chiude, lasciando all’Europa il compito di provvedere da sola alla sua sicurezza e alla sua difesa, di prendere su di sé la responsabilità della salvaguardia dei valori su cui è stata fondata, della pace, dei diritti, del welfare, della democrazia che vacilla persino negli Stati Uniti. E come sempre è stato in passato, anche oggi accade: l’Europa reagisce dinnanzi al pericolo e propone un piano per la propria salvaguardia.

È comprensibile lo smarrimento di alcuni che vedono in questa necessità di difesa una dissonanza con la parola pace, ma non vi è dissonanza. Da ottanta anni l’Europa non ha guerre entro i suoi confini. Un tempo così lungo ci ha indotti a pensare che la pace sia scontata e non un bene prezioso da difendere. Non si può non apprezzare il sentimento dei molti pacifisti che nel nostro Paese, come nelle altre nazioni europee, sono espressione di una ricca tradizione culturale e non si vuole affatto negare che la guerra sia la peggiore delle catastrofi per l’umanità. Eppure dobbiamo renderci conto che ottanta anni di pace sono stati garantiti anche dalla nostra adesione alla Nato e dall’ombrello americano che, chiudendosi, ci impone di attrezzare e predisporre un comune sistema di difesa. Il piano approvato dal Parlamento europeo è il primo passo necessario per arrivare a una difesa comune, a tutela dei nostri valori e della nostra democrazia. È un cammino difficile quello che le forze progressiste, europeiste e democratiche, storicamente sensibili al tema della pace, sono chiamate a percorrere. Non deve però prevalere una visione a corto raggio, ma è necessaria una robusta azione politica perché dalle decisioni delle singole nazioni si proceda spediti alla costituzione della comune difesa europea e da questa a una comune politica estera. Abbiamo bisogno di più Europa e di un’Europa finalmente unita.

Le forze politiche che, anche in Italia, si sono opposte alla risoluzione recentemente adottata e proposta da Ursula von der Leyen, obiettano che se ripudiamo la guerra non dobbiamo aumentare il nostro investimento in armamenti, nazione per nazione. Ed infatti non è questo lo scopo finale. Poiché per il momento creare un esercito di difesa europeo e coagulare una politica europea comune e inattaccabile non è cosa che può farsi in tempi brevi, si è optato per un riarmo europeo delle singole nazioni, in attesa di quello comune, per creare un deterrente efficace. Privi dell’ombrello americano della Nato, diventa ineludibile la domanda: chi ci difenderà quando il gioco si farà duro? Non è una domanda astratta. L’attacco verbale del Cremlino al presidente Mattarella (ripetuto ben quattro volte) con accuse infondate e aggressive è solo l’ennesimo segnale di un’escalation che l’Europa non può più sottovalutare. L’idea che Putin possa fermarsi dopo l’Ucraina è una pericolosa ingenuità: la storia insegna che i regimi vedono la debolezza come un invito ad avanzare.

Eppure, in Italia, il dibattito sulle spese militari resta dominato da una miopia disarmante. Non ci si vuole rendere conto che il giorno in cui gli Stati Uniti decidessero di ritirare o ridurre il loro impegno (cosa che Trump annuncia quasi quotidianamente), è evidente che l’Italia non sarebbe in grado di difendersi autonomamente da un’aggressione su larga scala. Ci vorrebbe un esercito europeo, certo, ma il vertice di Parigi ha confermato che questa soluzione non è dietro l’angolo, anche perché incontra resistenze feroci sia tra i sovranisti (che non vogliono cedere sovranità all’Ue), sia tra quei pacifisti che preferiscono sventolare bandiere arcobaleno anziché affrontare la realtà. Adesso, però, la minaccia russa e l’ultimatum di Trump dovrebbero servire da sveglia. Il tempo delle buone intenzioni è finito: senza una difesa credibile, noi europei rischiamo di scoprire presto che la pace non è un diritto ma solo una illusione che può svanire in una sola notte.

In un recente intervento su la Repubblica il noto autore Antonio Scurati si lancia in una lunga dissertazione sull’argomento. Dice Scurati che la guerra, contenuto psichico disturbante, è stata allontanata dalla nostra coscienza. Non l’abbiamo attivamente ripudiata, come suggerito dalla nostra inimitabile Costituzione; la abbiamo inconsciamente rimossa. A questo ci siamo limitati. E, infatti, le guerre non sono per niente cessate. Sono state semplicemente respinte ai confini del nostro mondo, ai margini oscuri della nostra coscienza. Ma oggi, però, niente è più come prima, il terribile spettro della guerra si aggira nuovamente per l’Europa e noi dobbiamo fronteggiarlo. Non possiamo più rifugiarci in una comoda rimozione. Diventa, perciò, più che mai importante comprendere l’ideologia bellica occidentale, il mito della guerra su cui si fonda e che attribuisce allo scontro armato frontale la doppia virtù di essere rivelativo e decisivo, la sedicente capacità di rivelare le identità dei combattenti e di risolvere i conflitti una volta e per tutte. È un mito sciagurato, un sanguinoso desiderio di luce smentito migliaia di volte dalla storia e dai campi di battaglia eppure mai abbandonato. Decostruire, demistificare, smascherare quel mito è compito degli uomini di pace. Per farlo bisogna però prima capire. Capire la guerra e capire la pace. Non si comprende l’una senza comprendere l’altra. Oggi più che mai è necessario rendersi conto della forza di seduzione della mitologia bellica, al pari della seduzione fascista, perché, purtroppo, quei miti sono ancora tra noi, sono di nuovo tra noi e, soprattutto, sono tutt’intorno a noi. Noi europei occidentali ce ne siamo finalmente liberati, ma altri ancora vivono e uccidono nel solco di quella ideologia e mitologia bellica (i soldati imperialisti di Putin, certo, ma anche quelli di Netanyahu che si illudono di portare la luce della guerra aperta nei cunicoli tenebrosi dell’orribile massacro terroristico, compiendo massacri più grandi). Scurati conclude la sua dissertazione scrivendo: «Ci sono momenti nei quali la politica fa la storia. Questo è uno di quelli nei quali è la storia a dover fare la politica. Noi europei non siamo chiamati a riarmarci, siamo chiamati a reinventarci. Non nel solco della tradizione bellicista ancestrale ma in quello del pacifismo attivo, militante e antifascista, nato in Europa sull’isola di Ventotene negli anni della Seconda guerra mondiale. Un esercito europeo unitario di pace, democratico, esclusivamente difensivo, affiancato ad apparati specializzati nella soluzione diplomatica dei conflitti, non in competizione ma al servizio del welfare, non culmine ma fondamento del lungo, incerto ma necessario processo di unificazione politica dell’Europa. ecco, questa mirabile invenzione riempirebbe il vuoto lasciato dalla benefica estinzione dei guerrieri europei. Se non lo riempiremo noi quel vuoto, altri lo faranno. E non in modo pacifico».

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