Se potessimo …

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Se qualcuno degli esseri umani che abitano su questa terra possedesse poteri soprannaturali e avesse la possibilità di esercitarli, per esempio, ponendo fine alle guerre che stanno martoriando questo povero pianeta, ho veramente pochi dubbi che si asterrebbe dal farlo. A chiunque di noi fosse posta la domanda: vorresti la cessazione delle guerre, della violenza, della fame e delle malattie? La risposta, salvo di qualche mente deviata, sarebbe un sonoro sì! Quindi non v’è alcun dubbio che la stragrande maggioranza del genere umano, sebbene cosmopolita, di vari orientamenti confessionali e politici e di diverse culture e tradizioni, mostrerebbe che c’è qualcosa che ci accomuna tutti e annulla le differenze: il desiderio di vivere in pace, liberi da affanni e ingiustizie.

I popoli della terra non sono divisi solo dai confini nazionali, dalla lingua, dall’organizzazione politica, ma anche, e talvolta profondamente, dalle credenze religiose che, spesso, sono anch’esse state all’origine di molti dei conflitti che hanno piagato questo martoriato pianeta. A sua volta la religione, qualunque religione, divide gli uomini in due categorie: i credenti e i non credenti. Per i primi tutto ciò che esiste è il frutto della volontà e della onnipotenza di un Essere superiore, che chiameremo dio, che ha creato ogni cosa, a cominciare dagli esseri umani com’è narrato — con molte contraddizioni —nel libro biblico della Genesi. Per i secondi il problema “dio” non si pone, in quanto tutto ciò che esiste nel vasto universo non è dovuto ad una mano divina, ma alle leggi della fisica e, segnatamente, dell’evoluzione, il che divide le due categorie di cui sopra in creazionisti ed evoluzionisti. Per i credenti il dilemma è cogente, e ad esso nessuno ha ancora trovato una risposta. È quindi ancora estremamente valida la domanda che si posero, successivamente, sant’Agostino, Severino Boezio e Goffredo Guglielmo von Leibniz, ovvero: “Si Deus est, unde malum? Se Dio esiste, da dove nasce il male? Si Deus non est, unde bonum? Se Dio non esiste, da dove nasce il bene?” Stiamo parlando del ragionamento filosofico definito comunemente teodicea, al quale tante fatiche ed elucubrazioni hanno dedicato le migliori intelligenze del passato, non riuscendo a trovare la quadra, o a volte risolvendolo facendo appello all’ancora di salvezza che è la fede. Ma la fede, da sola, non può fare cessare le guerre, anzi a volte ne è stata la causa scatenante. Certo è imbarazzante per un sincero credente non potere o saper dare una risposta convincente a chi gli chiedesse dov’era dio ad Auschwitz, e come mai rimase a guardare mentre avveniva l’orrore. Asserire che dio ha fornito l’uomo del libero arbitrio non costituisce la “licenza di uccidere”, tanto è vero che nelle Scritture ebraico-cristiane più e più volte egli minaccia di punire l’uomo che si sottrae o viola le sue leggi, fra le quali una dice “Non uccidere”. Si tratta, anche qui, di fare affidamento su un dio che, dopo aver emanato quel comandamento, ordina al suo popolo di sterminarne altri senza pietà e compassione, come è evidente dal libro di Giosuè ed emerge dalla citazione in Numeri 21:14, di un “libro delle guerre di Dio” che faceva parte delle scritture, ma è andato perduto.

Questi sono problemi che si pongono ai credenti, ma che non toccano minimamente i non credenti per i quali tutte le forme di vita esistenti sulla Terra, a cominciare dagli esseri umani, sono frutto di un plurimillenario processo evolutivo che vede nella lotta per la vita la sua ragione di esistere. Poiché secondo l’evoluzione alle origini delle origini eravamo un batterio e poi dopo milioni di anni un pesce e dopo altri milioni di anni, finalmente, un essere umano. Questo prodotto finale non può che essere frutto di uno sviluppo che lo ha costretto a combattere per non soccombere nella incessante lotta per la vita che da sempre infuria sulla Terra, a tutti i livelli, e che nel mondo moderno si trasforma nella guerra; guerra che ha sempre caratterizzato ogni epoca della storia umana e che ha visto un dio indifferente a dimostrazione o del suo scarso interesse o della sua non esistenza.

Ma il tempo è trascorso e insieme all’evoluzione biologica abbiamo avuto — fortunatamente — anche una sorta di evoluzione morale che ha aiutato i viventi a trovare forme di convivenza che non dovessero necessariamente ricorrere alla guerra. Queste forme di convivenza hanno trovato il loro culmine a partire dalla Grecia antica nella quale per la prima volta venne alla luce un termine nuovo, mai impiegato in precedenza, la “democrazia”, cioè il governo del popolo. Cominciò a parlarne Platone nella sua Πολιτεία (Politeia) quasi quattro secoli prima di Cristo, e da quel tempo in poi sono fiorite migliaia di diverse interpretazioni del termine a seconda delle scuole filosofiche che se ne sono occupate. Oggi la democrazia è la forma di governo fra le più diffuse sulla Terra, anche se assume molto spesso forme diverse a seconda di chi sta al timone delle navicelle nazionali. Inoltre, molto spesso, si tratta soltanto di una democrazia di facciata, dietro la quale si celano forme di totalitarismo che ufficialmente è stato ripudiato da tutto il mondo occidentale, specialmente dopo la carneficina dei due conflitti mondiali.

In teoria la democrazia, come disse Abramo Lincoln dopo che una spaventosa guerra civile aveva dilaniato il suo popolo è “il governo di popolo, dal popolo, per il popolo”. E Winston Churchill fu l’autore di un’espressione che è rimasta celebre, cioè che “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre fin qui sperimentate”. Sull’argomento si sono impegnate due menti illustri di nostri conterranei di grande prestigio. Giovanni Sartori nel 1957, nel suo celeberrimo Democrazia e definizioni, scrisse: “Il termine democrazia indica sia un insieme di ideali, sia un sistema politico, caratteristica che condivide con i termini comunismo e socialismo […] ma, a differenza di questi, la democrazia non si è mai identificata con una specifica corrente di pensiero: essa è piuttosto un prodotto di tutto lo sviluppo di tutta la civiltà occidentale. E quanto più democrazia ha assunto un significato elogiativo universalmente riconosciuto, tanto più ha subito un’evaporazione concettuale, diventando l’etichetta più indefinita del suo genere. Non tutti i sistemi politici si professano socialisti, ma anche i sistemi comunisti affermano d’essere democratici”. Dello stesso tenore è la posizione di Norberto Bobbio quando afferma che l’idea di democrazia è una di quelle che possono facilmente indurre a smarrirsi in discussioni inconcludenti, sulla scia di quanto aveva sostenuto Tocqueville circa l’uso che si fa delle parole democrazia e governo democratico [il quale uso] getta il massimo di confusione nello spirito. Ma perfino ai tempi della sua fondazione concettuale e pratica — all’epoca dell’antica Grecia di Aristotele – “democrazia” costituiva una parola ambigua. In quanto forma “virtuosa” di governo, era chiamata piuttosto politìa, un misto di aristocrazia e policrazia (governo dei più), nel significato moderno del concetto qualcosa che si avvicina molto al sistema di democrazia liberale fondata sul patto costituzionale e sul principio di rappresentanza. Quando ci si voleva riferire alla forma “deviata” di democrazia la si definiva invece olocrazia (governo di tutti), il governo delle masse, delle moltitudini senza distinzione alcuna, secondo gli schemi più vieti del populismo. Ma, prima ancora di Aristotele, un altro filosofo greco che si è molto occupato di politica, Platone, aveva fermato un criterio inderogabile per molti altri pensatori e teorici dei sistemi di governo; la politica è un affare troppo serio e complicato perché possa essere lasciata alla cura della gente comune; il potere politico dev’essere gestito dai “sapienti”, da coloro che sanno e hanno le necessarie competenze. Questo modo di vedere le cose è chiamato comunemente sofocrazia o noocrazia (governo dei sapienti o dei capaci) e ha ispirato numerose scuole di pensiero politico in età moderna.

Ma c’è un altro americano, molto più moderno, Jason Brennan, professore alla Georgetown University, che nel suo Contro la democrazia, esprime tutt’altro concetto, ispirandosi, anche se con notevoli differenze a quanto insegnato da Aristotele. Secondo Brennan: “Sebbene ci possano essere forme di governo intrinsecamente ingiuste, la democrazia non è l’unica forma di governo intrinsecamente giusta. Un suffragio illimitato, eguale, universale — in cui ciascun cittadino ha automaticamente diritto a esprimere un voto — è per molti versi, a una prima analisi moralmente discutibile”. Il problema è che il suffragio universale incentiva la maggior parte degli elettori a prendere decisioni politiche in condizioni di ignoranza e di irrazionalità, imponendo queste scelte a persone innocenti. Un suffragio illimitato, uguale e universale sarebbe giustificato soltanto se non potessimo concepire un sistema che funzioni meglio. In conclusione possiamo affermare che Brennan si schiera concettualmente con Aristotele, quando questi si preoccupava dell’elettorato, e quindi dicendo: “Qualsiasi tentativo di misurare la conoscenza politica in termini empirici ha dimostrato che la media, la moda e la mediana tra i cittadini delle democrazie contemporanee sono basse”, e questo lo farebbe optare per l’epistocrazia, che significa governo di coloro che sanno. Più precisamente, un regime politico è epistocratico nella misura in cui il potere politico è formalmente distribuito secondo le competenze, la capacità e la buona fede di agire sulla base di queste capacità. Anche John Stuart Mill, nella sua esperienza, riteneva auspicabile una sorta di forma epistocratica, come il voto plurimo, cioè se in una democrazia ogni cittadino ha un voto, alcuni cittadini, quelli che sono giudicati più competenti o meglio informati, hanno voti addizionali. Egli era preoccupato, tuttavia, che molti cittadini fossero incompetenti e troppo poco istruiti per fare scelte intelligenti in cabina elettorale. Perciò propose di dare più voti alle persone più istruite. Un pensiero di Brennan ci sembra appropriato per concludere questa disamina: “Proprio come sarebbe sbagliato costringermi a subire il bisturi di un chirurgo incompetente o ad andare in una nave guidata da un capitano che non sa il fatto suo, sembra sbagliato costringermi a sottomettermi alle decisioni di elettori incompetenti”. È ovvio che l’epistocrazia, sebbene possa a prima vista sembrare un sistema politico che vorrebbe porre rimedio alla scarsa formazione politica dell’elettorato, non è un sistema che possa essere considerato idoneo a risolvere i problemi delle nostre democrazie moderne; sarebbe un sistema classista che introdurrebbe differenze inaccettabili fra i cittadini elettori. E poi lascia aperta la domanda: chi decide chi sono gli idonei a rappresentare più di altri l’elettorato? Ci troveremmo di fronte a una evidente discriminazione, inaccettabile, anche se apparentemente soddisfacente. Quindi, per adesso, ci conviene tenerci stretta la nostra democrazia e cercare di fare il nostro meglio per migliorarla, senza fughe in avanti che lasciano il tempo che trovano.

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