
Riceviamo da Maria G. Buscema e volentieri pubblichiamo
Il 26 febbraio scorso i quotidiani il manifesto e la Repubblica hanno pubblicato un appello firmato da 200 ebree ed ebrei italiani contro la pulizia etnia a Gaza è «contro – si legge in un breve comunicato – le violenze israeliane a Gaza e in Cisgiordania, chiedendo al governo italiano di non rendersi più complice di queste azioni. L’iniziativa riprende i temi di un analogo appello promosso da ebree ed ebrei statunitensi, che ha già raccolto migliaia di adesioni, tra cui quelle di trecentocinquanta rabbini».
L’appello – ripreso anche dalla rubrica Fahrenheit su Rai3 – è stato patrocinato da Ləa – Laboratorio Ebraico Antirazzista e Mai Indifferenti – Voci ebraiche per la pace, «due reti che si battono per una giusta pace in Medio Oriente, in opposizione alle politiche di segregazione e occupazione in Palestina, e contro l’antisemitismo e ogni forma di razzismo presente all’interno delle nostre società».
L’appello non è affatto né antisionista, cioè non chiede la fine dello stato ebraico nato nel 1948, non legittima la guerriglia palestinese e ovviamente – basti vedere chi lo patrocina e chi ne è il firmatario – non può esser fatto passare come antisemita. Infatti è stato firmato da importanti personalità del mondo ebraico italiano, tra cui anche personalità da sempre dichiaratamente sioniste (come Gad Lerner, Roberto Saviano, Anna Foa, Donatella Di Cesare) che semplicemente non stanno apprezzando la direzione in cui sta andando Israele dal 7 ottobre 2023.
L’appello nasce come NO secco e diretto al piano proposto da Donald J. Trump, il quale vorrebbe che la Striscia di Gaza venisse «consegnata agli Stati Uniti da Israele alla chiusura dei combattimenti» e che la sua intera stremata popolazione palestinese venisse «reinsediata altrove», verosimilmente tra Egitto e Giordania, insomma, in un preoccupante riecheggio della Nakba, la ‘catastrofe’ – com’è chiamata dai palestinesi e dal mondo arabo – del 1948 che costrinse 750mila arabi palestinesi a cercar rifugio oltre confine per consentire la nascita d’Israele, ma anche quella del 1967, dopo la guerra dei sei giorni, quando, con l’allargamento dell’occupazione israeliana sull’intera Palestina storica, una seconda ondata di espulsioni di massa organizzate dal governo di Tel Aviv colpì la popolazione araba tra Cisgiordania, Gerusalemme Est e sulla striscia di Gaza (oltre che sulle alture del Golan in Siria e sulla penisola egiziana del Sinai).
Ora il nuovo programma per la Gaza postbellica immaginato dalla Casa Bianca riecheggia la Nakba, dato che non sembra prevedere alcun diritto al ritorno per i 2 milioni e poco più di gazawi che sarebbero spinti fuori dalla Striscia: «sto parlando di costruire un posto permanente per loro», è stata l’ultima conferma nelle parole di Trump, che ha poi aggiunto – oltre al danno pure la beffa! –, presentando la cosa sia come una necessità umanitaria ma pure come un’opportunità economica, di voler «prendere il controllo» di un «bellissimo pezzo di terra», Gaza, ridotto dalla guerra a «un grande cumulo di macerie […] inabitabile», e che i palestinesi «non hanno alternativa» che lasciarla in favore di «comunità più belle e sicure, un po’ lontane da dove si trovano, dove c’è tutto questo pericolo», per riqualificarlo e farne un grande sito immobiliare, una nuova «riviera del Medio Oriente» di proprietà e sotto responsabilità USA; l’idea era già saltata fuori l’anno scorso in Israele: «Svegliatevi, una casa al mare non è un sogno!» era l’annuncio su Instagram dell’agenzia immobiliare israeliana Harry Zahav Company, che opera anche in Cisgiordania, che corredava il tutto con una locandina, coi disegni dei progetti immobiliari per le nuove costruzioni sui terreni palestinesi distrutti dai bombardamenti a Gaza. Il manifesto si riferiva al “prosieguo dei lavori” che sarebbe seguito al conflitto, suggerendo che l’agenzia, tramite alcuni dipendenti nell’esercito israeliano, avrebbe iniziato a “rimuovere le macerie” per far spazio al suo progetto residenziale, un atto di cinismo che ha raccolto lo sdegno social di migliaia di utenti, anche israeliani ed ebrei, ma non solo, che hanno commentato con disgusto l’annuncio.
Ecco, l’appello dei 200 ebrei italiani è un NO deciso a questa scellerata presa di posizione e, per la prima volta, ebrei antisionisti, post-sionisti e sionisti di sinistra esprimono una posizione comune su un programma “minimo”: evitare la deportazione della popolazione di Gaza voluta dal piano scellerato di Donald J. Trump, la cui elezione alla Casa Bianca, non va dimenticato, ha diviso in due la comunità ebraica statunitense. Il voto ebraico, infatti, ha visto la candidata democratica Kamala Harris in vantaggio con il 56%, mentre il repubblicano populista Donald J. Trump ha raccolto il 43% delle preferenze. Percentuali che riflettono il consolidamento del sostegno ebraico verso il Partito Democratico nelle grandi città a stragrande maggioranza dem, anche se Donald J. Trump, con la sua politica filo-israeliana continua ad attrarre una parte significativa dell’elettorato ebraico, che da anni si schiera a destra. Al loro fianco abbiamo gli elettori evangelici: La Stampa del 7 febbraio 2025 notava che «30 milioni di sionisti “cristiani” evangelici americani (il quadruplo degli ebrei americani) invocano la ricostruzione del terzo Tempio di Gerusalemme. Quando minaccia di deportare i palestinesi, Trump può far leva su 30 milioni di sionisti cristiani che invocano la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme, come premessa della seconda discesa di Cristo».
Nato dal ‘risveglio’ evangelico negli USA, il sionismo cristiano, sostenuto dalla destra americana repubblicana fin dai tempi di Ronald Reagan e da sempre a braccetto con la destra nazionalista israeliana, dall’ex primo ministro israeliano Menachem Begin negli anni ‘70 e ‘80 – membro del movimento sionista di destra Betar, fondato da Vladimir Žabotinskij, che non faceva mistero di simpatie per l’Italia fascista (almeno fino alle leggi razziali del 1938) – a Benjamin Netanyauh, un’area culturale, quella cristiano-sionista forte nelle chiese evangeliche statunitensi, che propugna una visione apocalittica del destino d’Israele e del mondo. I suoi capisaldi sono esegesi letteralista della Bibbia, antislamismo viscerale, il culto del Regno di David che va restaurato, viste le promesse che Dio fece agli israeliti in Isaia, la cui restaurazione del Tempio, collegata al radunamento degli ebrei entro una “Grande Israele” – disegno geopolitico della destra israeliana che, sulla base dei confini geografici citati in Genesi 15,18-21, Numeri 34,1-15 ed Ezechiele 47,13-20, descrive un ampio territorio “dal Nilo all’Eufrate”, costituito da tutto l’attuale Israele, i territori palestinesi di Gaza e Cisgiordania, il Libano, gran parte della Siria, la Giordania e parte dell’Egitto, teoria estremista – che la destra sionista, sin dagli anni ‘20, propagandò in lungo e largo, ereditata dagli eredi oggi al governo a Tel Aviv – interconnessa con la parousìa di Gesù Cristo e l’imminente Armaghedon, la fine del mondo.
I 200 firmatari ebrei, in estrema sintesi, dicono NO a queste politiche indegne di una democrazia moderna. La cosa più interessante di tutto ciò è vedere come hanno reagito le comunità ebraiche italiane. La risposta delle comunità ebraiche è stata di sdegno totale, accusando i firmatari (tra cui spiccano anche ex rappresentanti delle comunità ebraiche italiane) di essere falsi ebrei, ebrei che odiano se stessi, ebrei “antisemiti”, ebrei fascisti ecc.; sul sito web ebraico romano Shalom.it è apparso, in coincidenza della pubblicazione con il funerale in Israele dei piccoli Bibas, quanto segue: «Oggi no. Noi piangiamo le nostre figlie e i nostri figli»; mentre nel sito è intervenuta Angelica Edna Calò Livnè, ebrea romana, docente e animatrice culturale, da anni residente in un kibbutz in Israele, che ha detto dei 200 firmatari: «Con la vostra firma voi incriminate Israele e soprattutto mettete in pericolo voi stessi, ebrei della Golà (Diaspora) perché noi continueremo a difenderci ma il terrorismo continua a colpire spietatamente». Riccardo Pacifici, ex presidente della Comunità ebraica romana, ha chiesto una «formale presa di distanza» dei vertici dell’ebraismo italiano: «Questo appello non fa che alimentare l’odio antiebraico. Io sarò quello “cattivo”, ma non accetto lezioni. Mi sembrano gli ebrei di “corte” sotto il fascismo. Abbiamo avuto grandi esempi sotto il fascismo di ebrei che hanno finanziato la marcia su Roma, che hanno partecipato alla nascita del fascismo». Luciano Belli Paci, figlio della senatrice a vita nonché ex deportata Liliana Segre, fra i fondatori di Sinistra per Israele, gruppo filoisraeliano di centrosinistra, spiega perché non avrebbe mai firmato l’appello per dire No alla pulizia etnica a Gaza:«È sbagliato usare il termine pulizia etnica, ma è ancora più dannoso suddividersi tra ebrei buoni ed ebrei cattivi», sostenendo che «pur non avendone ancora parlato con mia madre, credo che anche lei non condivida» l’appello.
Oramai per finire nel mirino ed esser accusati di esser “antisemiti” non serve nemmeno più essere antisionisti (un tempo serviva l’accusa di odio razziale, che colpiva spesso gruppi di estrema destra o la pubblicistica negazionista della Shoah), perché basta solo criticare il governo di estrema destra di Netanyahu e Smotrich.
L’appello infatti, pur essendo moderato e basato sul buon senso, getta un seme nel mondo ebraico per ripensare a se stessi e il rapporto con Israele, e questo le comunità ebraiche lo sanno bene, preferendo – a differenza dei singoli ebrei, anche sionisti, post-sionisti o antisionisti di sinistra – non mettere in discussione lo status quo.
Il mondo ebraico è oggi in preda a un’isteria collettiva, incapace di ripensare a se stesso come semplice comunità religiosa (come fa invece la minoranza protestante valdese in Italia, anch’essa in passato perseguitata, ma patriottica) e accecato invece da una foga identitaria, che trasuda di insensibilità verso le tragedie altrui e di ripiegamento verso sé stessa. Il 7 ottobre e il palese fallimento dell’esercito israeliano (che non solo ha perso la battaglia morale e mediatica, ma pure quella effettiva, dal momento che non è riuscito a “sconfiggere Hamas”, occupare il Libano, minacciare l’Iran, ecc., seppur abbia festeggiato per la caduta del regime di Assad in Siria, anche se da parte di una coalizione islamista sostenuta dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan) hanno fatto sentire gli ebrei sempre più deboli e impauriti, scatenando in loro la “reazione immunitaria” dell’identitarismo, una brutta bestia gravida di xenofobia da sempre, non solo contro gli ebrei (come la storia del nazifascismo insegna, visto che il nazifascismo ostracizzò ed eliminò anche altre minoranze, oltre a quella ebraica). Il razzismo non è una malattia da cui si è immuni per aver subito in passato delle discriminazioni: chi è stato discriminato, purtroppo, può discriminare a sua volta.
La storia ricorderà chi ebbe il coraggio di opporsi a tutto questo, così come ricorderà chi rimase in silenzio e chi addirittura si rese complice. Si ricorderà, lo ha sottolineato poco tempo fa Gad Lerner (oggi oggetto di insulti vergognosi da parte di molti cittadini di origine ebraica e da molti italiani filoisraeliani sulla sua pagina Facebook e a lui esprimiamo la nostra più totale e sincera solidarietà), l’autorevolissima presa di posizione di un gigante come Primo Levi in occasione della guerra in Libano nel 1982, che condannò pubblicamente il governo di destra di Tel Aviv di Menachem Begin per quell’invasione militare e per la sua responsabilità nel massacro di Sabra e Chatila, compiuta con la copertura dell’esercito israeliano guidato da Ariel Sharon, patrigno politico di Benjamin Netanyauh, dalle milizie di estrema destra cristiano-maronite. Primo Levi, reduce di Auschwitz, capì la tragedia subita e fece di tutto per testimoniarla non solo parlando del suo passato, ma cercando di capire i lasciti dell’odio nel presente, che purtroppo possono coinvolgere tutti.
Maria G. Buscema