Il tesoro del cardinale Brancaccio

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Napoli, Cappella Brancaccio in san Domenico Maggiore (Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Cappella_Brancaccio)

Napoli era avvolta da una nebbia insolita quella sera. La luce dei lampioni tremolava e il frastuono del traffico lontano si mescolava ai passi sguaiati degli ultimi turisti che risuonavano nei vicoli. Un omone barbuto aveva accostato la potente moto all’imbocco dell’isola pedonale. Si chiamava Lorenzo e camminava a passo svelto, i tacchi degli stivali Harley risuonavano sul selciato mentre stringeva nella mano un vecchio foglio ingiallito: un frammento di una lettera che parlava di un tesoro nascosto nella Basilica di San Domenico Maggiore.

L’uomo aveva sentito la leggenda molte volte da bambino. Si diceva che l’anziano pittore Pietro Cavallini, giunto a Napoli sotto la protezione di Carlo II d’Angiò nel 1308, avesse dipinto più di quanto gli fosse stato chiesto. Nascosto tra le sue opere c’era un segreto, un messaggio lasciato in codice tra i colori e le figure. Il potente cardinale Landolfo Brancaccio, committente dell’opera per la sua cappella privata, custodiva un tesoro di inestimabile valore, scomparso misteriosamente dopo la sua morte. Da allora, chiunque avesse provato a trovarlo era stato colpito da una maledizione. Le storie dipinte di san Giovanni evangelista, un tempo imponenti sopra l’altare, si diceva nascondessero un enigma: alcuni dettagli, apparentemente marginali, rivelavano messaggi criptici, forse legati al misterioso tesoro. Ma con il passare del tempo, molti di quegli affreschi andarono perduti, consumati dall’umidità e dagli anni, come se la storia stessa volesse cancellare ogni traccia del segreto custodito nella pietra. Durante i rifacimenti rinascimentali della chiesa poi, le pitture della Cappella Brancaccio furono coperte da altre opere, e con esse la leggenda del misterioso tesoro del cardinale Brancaccio era sembrata solo una fola gotica per spaventare i bambini o, come diceva sua nonna materna, ‘o cunto do’ pittore ‘e San Dummineco. Ma nel 1953, dopo un restauro che interessò l’intera basilica, gli affreschi della cappella rividero la luce dopo seicento anni. Agli occhi degli stupiti restauratori si rivelò un capolavoro di somma bellezza creduto perso per sempre.

Pietro Cavallini, Noli me tangere (Fonte: Wikimedia Commons)

Pietro Cavallini aveva dato il meglio di sé nei lavori della cappella, traducendo sulle pareti la grandiosità del divino e la potenza del colore. Il suo ciclo di affreschi narrava scene della vita di Cristo e della Vergine, realizzate con una maestria che fondeva la tradizione bizantina con una nuova sensibilità naturalistica. Le figure emergevano dalle pareti con un’insolita plasticità, i volti esprimevano emozioni autentiche, e la luce sembrava fluire direttamente dalla materia pittorica.

Allora i racconti della nonna avevano un fondo di verità. Del resto, la chiesa dei Domenicani era nota per le sue leggende. Si diceva che un crocifisso dipinto avesse parlato a San Tommaso d’Aquino, rivelandogli il compiacimento divino per le sue opere teologiche; che Caravaggio, mentre dipingeva la Flagellazione di Cristo nella cappella de’ Franchis, avesse bestemmiato talmente tanto da attirare su di sé la collera di Dio; e che tra quelle mura vagassero i fantasmi dei re aragonesi, sepolti nella sagrestia delle arche. C’era perfino chi giurava di aver visto il fantasma di Tommaso Campanella litigare con quello di Giordano Bruno, entrambi un tempo allievi del convento.

Ma Lorenzo non credeva nei fantasmi. Era uno storico dell’arte, un ricercatore che si era imbattuto in un vecchio manoscritto il quale accennava a un affresco nascosto sotto un velo di calce, raffigurante una donna dallo sguardo enigmatico: Allegra Brancaccio, l’amante segreta del cardinale. Era scritto che solo la donna conoscesse il luogo esatto in cui il tesoro era stato nascosto e che la sua anima fosse rimasta in eterno a proteggere il segreto.

La pergamena che l’uomo stringeva tra le mani l’aveva rinvenuta per caso, nascosta tra le pagine ingiallite di un antico messale trovato spulciando nell’Archivio di Stato. Il testo, scritto in latino, parlava anche di un incesto consumato nel cuore dell’insula religiosa di san Domenico: la relazione proibita tra il cardinale Landolfo Brancaccio e la sua giovane amante Allegra, figlia minore del fratello Carlo. Il prelato, presagendo lo scandalo e la rovina, ordinò che la nipote fosse murata viva dietro uno degli affreschi della cappella. Con lei fece murare il tesoro che possedeva, per punirsi della sua vanità mondana e della fornicazione che, insieme alla donna, lo avevano allontanato da Dio. Prima di morire di stenti, Allegra lanciò una maledizione: chiunque avesse osato profanare il suo segreto sarebbe stato dannato per sempre.

Giunto davanti alla imponente facciata di tufo, Lorenzo si infilò nel portone laterale. La cappella degli affreschi era immersa in un silenzio irreale. Solo la fievole luce di una candela accesa dall’ultimo fedele illuminava il buio. Il suo respiro si fece pesante mentre avanzava tra le navate gotiche, finché non giunse davanti all’opera che aveva cercato.

Era diversa dagli altri dipinti. I colori sembravano più vivi, come se il tempo non l’avesse mai sfiorata. Si trattava del “Noli me tangere”, l’opera che mostrava Cristo risorto nell’atto di essere trattenuto da Maria Maddalena. Secondo il ricercatore, il tema non era affatto casuale; forse Landolfo paragonava la sua ritrovata religiosità al Cristo purificato che scaccia l’ex peccatrice di Cafarnao, archetipo dipinto della sua giovane amante. Ma qualcosa non tornava: mancava un lacerto dell’opera, come se qualcuno lo avesse strappato via. E subito sotto, il muro portava tracce di un altro dipinto, ormai scomparso.

Lorenzo sfiorò la parete con le dita, sentendo sotto la calce una cavità. Il cuore gli batteva forte mentre, con uno scalpello sottile, incise un piccolo foro dove la sua mano sprofondava di più.

Un soffio gelido attraversò la cappella. Il lume della pila tremolò e per un istante ebbe la sensazione che l’affresco si muovesse. Poi, un sibilo s’insinuò tra le pietre: “Vattene finché puoi.”

Le mani gli tremavano mentre rimuoveva un frammento più grande di intonaco. Dietro di esso, incastonata nel muro, brillava una leva consunta. Istintivamente fece leva tirandola verso di sé. Un angusto passaggio conduceva in una nicchia retrostante, la luce della sua torcia illuminò una cassa oblunga di legno decorata con lo stemma dei Brancaccio.

Finalmente, il tesoro.

Il sudore gli bagnava la camicia e imperlava la fronte, aprì la cassa con mani febbrili… e il gelo gli attanagliò il petto.

Dentro non c’erano monete d’oro né gioielli, ma uno scheletro avvolto in abiti trecenteschi rovinati dai secoli. I resti mortali di donna che stringeva tra le mani e il grembo le ossa minute e parte del cranio di un bambino.

Un urlo si strozzò in gola a Lorenzo, il tesoro del Brancaccio era il frutto della sua prole impura! Un vento improvviso squarciò il silenzio. Le luci della cappella si spensero tutte in un istante e un sussurro avvolse la stanza. Un’ombra si mosse tra le colonne, il ricercatore sentì un respiro sul collo: “Non avresti dovuto…”

Tentò di fuggire, ma i suoi piedi erano incollati al pavimento. Un’ombra si distaccò dal muro, e la figura del fantasma di Allegra si mosse verso di lui. Un ghigno terribile le deformava il volto.

Lorenzo cercò di urlare, ma la voce non uscì. Le sue gambe cedettero mentre la forza invisibile lo spingeva verso il muro intonacato, cercando di strangolarlo. Il respiro si fece più vicino, freddo, gelido, mentre la figura diabolica lo sopraffaceva. L’ultima cosa che Lorenzo vide fu il sorriso malvagio di Allegra.

La mattina dopo, il custode trovò la cappella in perfetto ordine. Non c’erano segni di scavi né tracce di intrusioni. Ma qualcosa era cambiato, di fianco all’affresco del “Noli me tangere”, accanto alla figura di Maddalena, era comparsa una nuova figura: un uomo con la barba e gli stivali steso a terra, con un diavolaccio alato che lo strangolava sormontandolo. La scena sembrava prendere vita, quasi come se l’uomo fosse stato tracciato direttamente nel dolore che il destino gli aveva riservato.

Nota dell’autore

Naturalmente, questo è un racconto di fantasia. Ma se andrete a visitare la Cappella Brancaccio, potrete ammirare gli splendidi affreschi di Cavallini e anche l’enigmatica figura dell’uomo sovrastato dal diavolo. Come vedrete, c’è davvero un piccolo foro nel muro. Non avvicinatevi troppo, però. Napoli ha tante storie e alcune è meglio non raccontarle.

4 commenti su “Il tesoro del cardinale Brancaccio”

  1. Raffaele Catania

    Il ritmo incalzante e la descrizione dettagliata dei luoghi trasportano il lettore in un’avventura affascinante e inquietante. Ottima narrazione!

  2. Roberta Serra

    Affascinante e inquietante al tempo stesso, questo breve racconto ha la capacità di intrigarti tra arte, magia e storia. Anche per chi, come me, non è napoletano, è impossibile non rimanere ammaliati da una città che custodisce così tante storie, alcune sussurrate e altre mai raccontate. Complimenti Antonio!

    1. Antonio Nacarlo

      Grazie mille per il commento, è mia convinzione che tutte le città del mondo abbiano il loro fascino, basta smettere di “vedere” ed iniziare a “guardare”. Mi scusi il gioco di parole ma, molto spesso, viaggiamo distrattamente senza soffermarci e stupirci per l’immenso patrimonio di bellezza che ci circonda. Le auguro una buona serata

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