Massimo Stanzione e Hans-George Gadamer: un incontro possibile

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Massimo Stanzione, Cleopatra suicida, 1630; Hermitage, San Pietroburgo (Fonte: Wikipedia Commons)

Massimo Stanzione è una delle figure più significative della pittura napoletana del Seicento, protagonista di un’epoca in cui Napoli era uno dei centri artistici più vitali d’Europa. Nato intorno al 1585, si formò in un ambiente profondamente influenzato dalla rivoluzione caravaggesca, che aveva introdotto un linguaggio pittorico inedito basato sul naturalismo e sull’uso drammatico della luce. Tuttavia, a differenza di altri seguaci di Caravaggio, Stanzione sviluppò uno stile più equilibrato e armonioso, fondendo la forza espressiva del realismo con la grazia e la compostezza della pittura bolognese di Guido Reni e dei Carracci. Questa sintesi tra intensità emotiva e raffinatezza classica lo rese uno dei pittori più apprezzati del suo tempo, attivo per committenze ecclesiastiche e aristocratiche, nonché maestro di una generazione di artisti napoletani.

All’interno della sua vasta produzione, un ruolo di rilievo spetta ai dipinti dedicati a eroine bibliche e mitologiche, spesso ritratte in momenti di profonda introspezione. Tra queste, la Cleopatra oggi conservata al Museo dell’Hermitage è un esempio paradigmatico della sua capacità di unire dramma e bellezza, pathos e misura. Il tema della morte della regina d’Egitto ha affascinato numerosi artisti, diventando simbolo di potere, seduzione e rovina. Cleopatra è stata rappresentata in modi diversi, da immagini di disperazione violenta a visioni più pacate e contemplative. La versione di Stanzione si colloca in quest’ultima tradizione: la regina non è colta in un’esplosione di dolore, ma in un abbandono languido, il volto reclinato, gli occhi socchiusi, il corpo ancora saturo di vita e sensualità. Il dramma è suggerito più che dichiarato e proprio questa ambiguità emotiva rende il dipinto straordinariamente moderno nella sua capacità di evocare senza imporre.

Hans-Georg Gadamer, nato nel 1900 a Marburgo, in Germania, è stato uno dei filosofi più importanti del XX secolo, noto soprattutto per il suo contributo all’ermeneutica filosofica con Verità e metodo (1960). Un’opera d’arte, secondo l’insegnamento di questo filosofo, non è mai un oggetto chiuso e definitivo, ma un evento di senso che si realizza nell’incontro tra spettatore e dipinto. La sua teoria ermeneutica critica l’idea di un significato oggettivo e assoluto dell’arte, sottolineando invece il ruolo dell’interpretazione. Per Gadamer il significato di un’opera non è un dato fisso, ma si rinnova ogni volta che qualcuno la osserva, portando con sé il proprio bagaglio culturale e le proprie esperienze.

In questa prospettiva, la Cleopatra di Stanzione non è soltanto una rappresentazione del suicidio della regina egizia, ma un’opera che continua a interrogare chi la guarda. Il suo volto non esprime una sola emozione: è abbandono o piacere? rassegnazione o estasi? Lo sguardo dello spettatore non trova una risposta definitiva, ma viene coinvolto in un dialogo silenzioso con l’immagine, in cui il significato resta sempre aperto.

L’illuminazione della scena contribuisce a questa ambiguità interpretativa. Il chiaroscuro, pur evocando il dramma caravaggesco, non è violento: la luce accarezza il corpo di Cleopatra, esaltandone la morbidezza e il calore, creando un effetto quasi sensuale. Il suo corpo nudo è avvolto da un drappo rosso, simbolo di passione e regalità, ma anche di violenza e di morte. Il contrasto tra la pelle luminosa e il fondo scuro rafforza la sospensione tra vita e morte, tra presenza e assenza.

Osservando il dipinto con l’approccio di Gadamer, possiamo dire che Stanzione non impone una lettura univoca: non c’è un punto esclamativo che chiude il senso dell’opera, ma una domanda aperta. L’arte, in questa visione, non è un messaggio trasmesso da un autore a un pubblico passivo, ma un’esperienza viva, che muta con il tempo e con chi la osserva. Ogni spettatore, nel guardare questa Cleopatra, costruisce il proprio significato, in un processo che non si esaurisce mai. Questa prospettiva spinge a riconsiderare il concetto stesso di verità. Se ogni interpretazione è legata all’esperienza del singolo, allora la verità dell’opera non è assoluta, ma mutevole. L’arte non è un codice da decifrare, ma un orizzonte di possibilità in cui ogni incontro è un evento irripetibile. La Cleopatra di Stanzione, con la sua bellezza sospesa, ci ricorda proprio questo: non ci offre una risposta, ma ci spinge a interrogarci, rivelandoci che la verità, forse, è sempre in divenire.

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