Trump, il mistico

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Bisogna dare atto al neopresidente americano del fatto che, per la prima volta, dopo duecento anni nei quali, a cominciare da De Tocqueville, l’America è stata definita come “la più grande democrazia del mondo”, è riuscito in un’impresa che non era mai nemmeno stata pensata dai suoi predecessori, cioè quella di trasformare la demo-crazia in una teo-crazia. D’altra parte quanto sta accadendo oltre Atlantico è il minimo che ci si possa aspettare, dal momento che il dio di Trump è entrato fragorosamente in campagna elettorale, operando in modo che il suo “prescelto” alla guida del Paese potesse assidersi sullo scranno più alto della politica mondiale.

Certo, qualcuno potrebbe porsi la domanda sul perché questo dio abbia deciso di intervenire così platealmente dopo essere rimasto inane e distaccato quando, a cominciare da Abramo Lincoln (1865), lasciò che questi, insieme a James Garfield (1881), William McKinley (1901) e John Fitzgerald Kennedy (1963) fossero barbaramente trucidati durante il loro mandato presidenziale. Era quindi necessario che “l’unto” del Signore manifestasse apertamente la sua riconoscenza a chi si era mobilitato per salvargli la vita e così permettergli di salvare il mondo, perché questo, in fondo, è il suo intimo proposito. È interessante sapere, al riguardo, che Trump, profondo conoscitore di quella parte del popolo americano che vive nella “Bible belt”, la “fascia biblica”, è molto sensibile all’argomento della fede, ed ecco che in un’intervista al Religion News Service di qualche tempo fa, il Presidente ha detto di non sentirsi più presbiteriano ma cristiano “rinato”. Non è una distinzione irrilevante. È un modo per segnalare alla destra religiosa che è uno di loro, uno strumento imperfetto pronto però a compiere la volontà del Signore. Ed ecco, quindi, che il trasformista Trump, dopo la versione Al Capone e quella di immobiliarista, con l’ambizioso progetto di trasformare Gaza nella nuova Costa Azzurra del Medio Oriente, è apparso nella figura del mistico. Entrato nel salone dell’Hilton di Washington, per partecipare al National Prayer Breakfast, tradizionale forum religioso politico bipartisan che da otre mezzo secolo si svolge il primo giovedì di febbraio, il Presidente è stato presentato così dalla telepredicatrice e sua consigliera spirituale Paula White: “Ecco il presidente del popolo, tra tutti il più grande difensore della religione”. E Trump ne ha colto l’occasione per infiammare la platea, annunciando la firma di un ordine esecutivo (sembra che dal giorno dell’insediamento non abbia fatto altro) per creare una task force con il compito di “sradicare il pregiudizio anti-cristiano”. Ha aggiunto, poi, che metterà un “ufficio della fede” dentro la Casa Bianca e ordinerà alla nuova ministra della giustizia, Pam Bondi, di “colpire tutte le forme di discriminazione” verso i cristiani da parte dei dipartimenti e delle agenzie federali, inclusa l’F.B.I.

È un’iniziativa che solleva preoccupazioni costituzionali, perché potrebbe violare il principio di separazione tra Stato e Chiesa. Il Primo Emendamento stabilisce che il Governo non può imporre una religione o interferire con la libertà religiosa. Trump è il primo presidente pregiudicato della storia americana, condannato per 34 reati legati a uno scandalo sessuale, ma la base religiosa vede in lui solo il mistico. Nel discorso dell’insediamento alla Casa Bianca, Donald Trump aveva detto che dall’attentato della scorsa estate durante la campagna elettorale era uscito indenne per volontà divina. “Mi hanno sparato: è Dio che mi ha salvato per far sì che l’America possa ritornare grande”, aveva detto. E come forma di ringraziamento verso il Signore, il Presidente USA ha, come abbiamo appena visto, firmato un ordine esecutivo per l’istituzione di un’unità operativa volta a sradicare i “pregiudizi anticristiani” nel governo federale, in modo che le agenzie governative rivedano le politiche e le pratiche che, a suo dire, hanno cercato di soffocare le attività e l’attivismo religioso.

Secondo il provvedimento firmato da Trump, tale Unità ha lo scopo di “perseguire pienamente la violenza anticristiana e il vandalismo nella nostra società” e “per difendere i diritti dei cristiani e dei credenti religiosi in tutto il paese”. Insomma, Trump indossa la casacca del defensor fidei della religione cristiana. Colpisce il commento che ha fatto dopo la tragedia aerea sul Potomac, della quale ha scaricato la responsabilità sui due precedenti presidenti, affermando: “Come nazione cerchiamo conforto nel sapere che il loro viaggio (delle vittime) non è finito nelle fredde acque del Potomac, ma nel caldo abbraccio di un Dio amorevole. Proteggeremo i cristiani nelle scuole, nell’esercito, nel governo, nei luoghi di lavoro, negli ospedali e nelle pubbliche piazze. Faremo del nostro paese un’unica nazione sotto Dio. È tempo di riportare la religione nel paese”. Praticamente quest’uomo dopo quasi 17 secoli ha emanato un nuovo “editto di Costantino” che concedeva libertà di culto ai cristiani e poneva fine a una sanguinosa stagione di persecuzioni, ma è arrivato un po’ tardi dato che, se vi è un paese nel mondo dove la religione ha sempre occupato un posto di rilievo nella massima libertà, questo è proprio quello statunitense, dal quale uno sciame di sette cristiane della più svariata natura si è sparso in tutto il mondo, Europa compresa, e dove il mormonismo, una religione squisitamente americana, per il suo modo credere e le sue pratiche ha ripiombato i suoi fedeli millenni indietro nel tempo, e tuttora gode della massima libertà, insieme a quella dei Testimoni di Geova, che lo tallona da vicino.

Il provvedimento, però, non è stato accolto favorevolmente dai democratici, che lo considerano un pericolo per la tradizionale concezione della libertà religiosa in America, sancita dalla Costituzione. L’iniziativa solleva infatti preoccupazioni costituzionali, in quanto sembra violare il principio di separazione tra Stato e Chiesa, previsto dal Primo Emendamento, che stabilisce che il governo non può imporre una religione né interferire con la libertà religiosa dei cittadini.

Per scongiurare che il “trumpismo”, con le sue pratiche rudi e la sua visione del mondo a tratti intollerabile, si trasformi in una nuova egemonia culturale della destra repubblicana, bisogna innanzitutto liberarsi dell’idea che questo magnate delle costruzioni (con le sue torri, il suo marchio, il suo reality e la sua capacità di penetrare nell’immaginario collettivo attraverso prodotti televisivi di scarsa qualità e largo consumo) sia un fulmine a ciel sereno piovuto sulle nostre teste all’improvviso. Non è così: nella storia, e in particolare in politica, rivoluzioni di questa portata non avvengono mai dall’oggi al domani. Infatti, se Reagan e i Bush costituirono gli alfieri della corrente dei cosiddetti “neocon”, ossia dei repubblicani interventisti, internazionalisti e convintamente liberisti in politica economica, Trump si colloca, al contrario, nel perimetro dei cosiddetti “paleocon”, ossia dei repubblicani storici, fondamentalmente isolazionisti, protezionisti in politica economica e desiderosi di abrogare, o comunque di limitare, tutte le conquiste ottenute nel corso degli ultimi decenni sul terreno dei diritti civili. Non più, dunque, una destra libertaria e liberista bensì una destra dotata di una certa matrice sociale ed estremamente arretrata sul tema dei diritti, perfettamente in linea con il comune sentire delle aree rurali, operaie e sostanzialmente segregazioniste che costituiscono la sua roccaforte.

Tutta la coreografia che ha caratterizzato l’insediamento di Trump il 20 gennaio scorso è stata fortemente improntata verso un orientamento religioso. La cerimonia, segnata da una forte presenza religiosa, ha visto il giuramento su due Bibbie e preghiere ecumeniche. I vescovi americani, però, hanno espresso preoccupazione per le misure annunciate, chiedendo tutela per immigrati, rifugiati, poveri e persone vulnerabili. E, pur assicurando che avrebbero lavorato con la nuova amministrazione e il Congresso, sia in accordo che in disaccordo, hanno espresso sin dal primo giorno della nuova amministrazione preoccupazione per quelle categorie, includendo i bambini non ancora nati, gli anziani e gli infermi. Ma è evidente che al nuovo Capo della nazione, queste preoccupazioni non interessano più di tanto, dato che ha dalla sua parte il Capo di tutti i capi, Dio in persona: “La mia vita è stata salvata da Dio per rendere di nuovo grande l’America”. Egli ha racchiuso in queste parole le ragioni della sua missione e del suo lavoro alla guida del Paese nei prossimi quattro anni. L’attentato del 13 luglio scorso in Pennsylvania, che aveva provocato il ferimento del suo orecchio, sfiorato da un proiettile destinato invece a colpirlo al capo, è stato rievocato nel discorso di inaugurazione come conferma, secondo Trump, di un presidente predestinato a riportare gli Stati Uniti fuori da apocalittiche previsioni di rovina. “L’età dell’oro dell’America inizia proprio ora”, ha dichiarato Trump, pronunciando uno dei tanti slogan che hanno aperto e successivamente chiuso la cerimonia del giuramento alla Rotonda del Campidoglio. Trump ha ribadito che la sua amministrazione “non dimenticherà il nostro Paese, non dimenticheremo la nostra Costituzione e non dimenticheremo il nostro Dio”, insistendo sul fatto che gli Stati Uniti saranno di nuovo rispettati e ammirati sotto la sua guida, “anche da persone di religione, fede e buona volontà”. Ritengo che, nella mente delle persone pensanti e attente agli sviluppi della politica internazionale, non può che crescere una profonda preoccupazione per la piega che prenderà nei prossimi quattro anni la politica americana nelle mani di un individuo del genere. E ancora una volta ribadiamo che, in questo clima di sfacelo internazionale, l’Europa avrebbe la straordinaria, e forse irripetibile, occasione di strutturarsi come Unione politica, dotandosi di un governo coeso e democraticamente eletto dai cittadini, di un minimo di credibilità internazionale e di trattati improntati al bene comune, a cominciare da tematiche scottanti come il clima e la salvaguardia ambientale. Senza contare che potrebbe rendersi autonoma su molti aspetti cruciali, primi fra tutti i temi della difesa e della sicurezza, essenziali in una stagione nella quale siamo costretti a confrontarci con la ferocia del terrorismo jihadista, la protervia di Putin e con una questione imprescindibile come l’immigrazione, la quale, se gestita male, costituisce il più grave e pericoloso dei problemi mentre, se venisse gestita al meglio, valorizzando l’integrazione e punendo ogni forma di sfruttamento e di illegalità, potrebbe trasformarsi in una risorsa straordinaria per un Occidente alle prese con un evidente calo demografico e un progressivo invecchiamento della popolazione. Peccato che per realizzare il sogno dei padri del progetto europeo occorrerebbe una classe dirigente dello stesso livello, il che purtroppo non è alle viste, e sembra che non lo sarà per molto tempo ancora. Quindi non ci rimane che esclamare: “ai posteri l’ardua sentenza!”

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