La vita è un dono?

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Il bene più grande di cui un essere umano possa disporre è la vita. Essa è unica e irripetibile. Non esistono due vite uguali, ecco perché dei miliardi di persone che sono morte nel corso dei millenni e di quelle che oggi sono viventi sulla terra, si può dire che ognuno di loro è un esemplare unico. La vita, cioè l’essere un individuo che pensa, respira, soffre, gioisce, spera, non è una caratteristica unica del genere umano; essa è una caratteristica di tutti gli esseri viventi, che facciano parte del mondo animale — come l’uomo — o di quello vegetale. La vita è uguale per tutti e ce lo conferma un brano del libro della Genesi che così recita: “Ma a tutte le fiere della terra, a tutti i volatili del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è l’alito di vita, io do come nutrimento le erbe verdi”. Esattamente come avvenne un poco più tardi per l’uomo, circa il quale troviamo che: “Allora Jahve Dio plasmò l’uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita; così l’uomo divenne un essere vivente”. Quindi “alito di vita” per gli esseri umani e alito di vita per tutto il resto delle altre creature; non esiste alcun cenno che distingua fra i due, come se per gli animali la vita dovesse essere semplicemente un meccanismo biologico, mentre per l’uomo l’alito di vita corrisponda ad un principio spirituale chiamato “anima” che colloca la sua vita ad un livello superiore, una sorta di dualismo che mentre al termine dell’esistenza degli altri esseri viventi pone fine a tutto, nel caso dell’uomo, al termine della prima esistenza, quella del corpo, ne fa seguito una seconda: quella dell’anima. Si potrebbe dire che l’uomo ha in effetti due vite, una a scadenza e l’altra eterna.

È opinione da molti condivisa che la vita sia “un dono di Dio” ma, se le cose stessero realmente così, è d’obbligo porsi la domanda: perché dio, un qualunque dio, dovrebbe offrire ai viventi un dono così prezioso per poi riprenderselo? È sempre nel primo libro del Pentateuco che troviamo la promessa di una vita senza fine per i due primi esseri umani, a patto che essi non si dimostrassero disubbidienti. Se, quindi, non vi fosse stata disubbidienza, oggi non conosceremmo la morte. Ma, facendo adesso astrazione da quanto sopra, possiamo affermare che la vita della nostra specie, l’Homo Sapiens, non è un dono ma una sua caratteristica che condivide con tutti gli altri esseri viventi. Se ascoltassimo la voce dei teologi, degli ecclesiastici, dei credenti in generale, dovremmo credere che miliardi di esseri umani, da tempo immemorabile, abbiano lasciato questa dimora terrena, il cosiddetto “aldiqua”, per il cosiddetto “aldilà”, popolato da un numero sconfinato di anime, e cioè di me, di te, di tutti noi, con le nostre caratteristiche di quando eravamo in vita, ma senza nient’altro da fare in un corpo senza cellule e organi, ma etereo o qualunque sia la sostanza di cui è costituito. Ovviamente questa è una conclusione frutto dell’ignoranza; ignoranza nel senso proprio del termine, in quanto stiamo parlando dell’ignoranza scientifica del processo evolutivo, processo capace di reggere finanzi a qualunque obiezione, che portò dei semplici batteri probabilmente viventi nel mare a trasformarsi nel corso di milioni di anni in ciò che siamo noi oggi.

Non è facile avere certezze, ma se ve ne è una è che l’intero racconto genesiaco è un mito in armonia con le conoscenze del tempo in cui esso fu redatto, mentre il processo evolutivo è un fatto che nessuno, se non degli incorreggibili negatori dell’evidenza, può revocare in dubbio. E allora, stando così le cose, ci farebbe piacere chiedere a chi nonostante tutto continua a credere nella “vita dopo la morte”, ma limitata solo alla specie umana, in quale momento o periodo, nel corpo dell’uomo di Neanderthal fu immessa l’anima, sempre che l’avesse? In quale momento della fase evolutiva gli ominidi furono provvisti di un’anima, così distinguendosi dai loro predecessori che invece non l’avevano? Le anime immortali sono in realtà una sorta di mantenimento della promessa di una vita senza fine, solo che si tratta di una vita dello stesso individuo che è morto fisicamente, cioè nella sua parte corporea, ma che è vivo, e per sempre, nella sua parte incorporea. Spiegazione che non regge, se ci volgiamo ancora al testo sacro dei cristiani, secondo il quale in seguito alla disubbidienza l’uomo sarebbe morto. E morte nel pensiero comune, e nella realtà, non è altro che la cessazione della vita, non vi è nessuna promessa edenica di una morte solo parziale, riguardante la corporeità, ma non ciò che è immensamente più importante, ovvero la vita spirituale.

Ritorniamo a porci la domanda: se la vita è un dono di Dio, per quale motivo egli ce la toglie? Non è etico riprendersi un dono dopo averlo consegnato. E non è etico far sì che ogni essere vivente della specie umana nasca già condannato a morte. Più che un dio misericordioso sembra di trovarci di fronte a un dio beffardo, che ci fa assaggiare tutto ciò che di bello può esserci nella vita, per poi dirci: ti piace? ebbene, fra un po’, te la toglierò. Nascere sapendo di dover morire, per chi si ferma a rifletterci è orrendo, come se fossimo dei condannati a morte in attesa dell’esecuzione nella cella della morte, con l’unica differenza che quel condannato sa la data in cui ciò avverrà, mentre noi non lo sappiamo perché essa può sopraggiungere in ogni momento, anche nel più inaspettato. La civiltà e il progresso hanno fatto sì che, nella maggior parte delle nazioni democratiche, la pena di morte sia stata abolita, ma non per colui che ce l’avrebbe donata e che inevitabilmente se la riprenderà senza eccezione alcuna.

Come dice il grande teologo Hans Küng nel suo Vita Eterna? (Mondadori, 1983): “In altri termini la morte priva la vita di ogni significato, essa, come non è una mia possibilità, così a maggior ragione, non è la mia possibilità significativa. È piuttosto l’annientamento, possibile a ogni istante, delle mie possibilità. Certo, nella morte l’uomo raggiunge la definitività, ma si tratta di una definitività nulla, senza senso. Alla fine, infatti, tutte le possibilità, che abbiamo realizzato nella vita, vengono raggiunte ed eliminate: da un caso, che così determina l’intera nostra vita abbandonandola al non senso. La morte è assurda perché rende assurda tutta la nostra vita … Essa non è l’accordo finale, risolutivo e liberatore che si sviluppa da una melodia per poi conferirle senso e totalità. No, essa è la sua improvvisa interruzione, dall’esterno senza alcun senso”.

Queste e centinaia di altre domande simili hanno arrovellato le menti di un numerosissimo stuolo di filosofi, esegeti, biblisti, scienziati e uomini in generale. Ma, se togliamo l’elemento “dio” dal ragionamento e dalla domanda, tutto diventa non solo più semplice, ma comprensibile. Lo studio della natura, per quanto vi sia ancora tanta strada da fare, è essenziale per comprendere. È essa che ci ha insegnato, con evidenze inoppugnabili, che nulla è eterno e tanto meno la nostra vita, che sia prima o dopo la morte. Lo stesso universo ha avuto inizio quasi quattordici miliardi di anni fa e un giorno avrà una fine. In che modo non lo sappiamo né ci interessa saperlo. Ma esso è la dimostrazione che anche un corpo inanimato può avere una sorta di vita, e che essa è destinata a finire. Miriadi di galassie e di stelle sono morte nel corso di triliardi di anni. Una stella muore quando esaurisce il suo combustibile e non è più in grado di brillare o “vivere”. Tutto ciò che è vita è programmato per la morte. Dio non c’entra in questo discorso. Tutte le specie viventi frutto di una plurimillenaria evoluzione hanno in sé una cosiddetta “data di scadenza”. Ogni specie animale ne ha una; alcune specie hanno una durata di vita predeterminata; ci sono animali che non vivono più di un mese, mentre altri raggiungono il secolo e mezzo. Così è anche per l’uomo: la natura che lo ha portato all’esistenza dopo milioni di anni di evoluzione, ha determinato la durata della sua vita all’incirca entro un secolo, con rare eccezioni, e nessuno può sfuggire a questa nemesi.

Quindi, in conclusione, ci sembra opportuno riportare parte del pensiero di Küng: «“Perché siamo sulla terra?”. La risposta a questa famosa prima domanda del catechismo … adottato molto largamente anche nel nostro secolo, suona così: “Noi siamo sulla terra per conoscere Dio, amarlo, servirlo e cosi (un giorno) andare in paradiso. Questa risposta è valida ancora oggi? … La maggior parte delle risposte a questa fondamentale domanda catechistica sembra troppo limitata per poter essere ancora oggi convincente».

Küng, da grande teologo progressista, mette il dito sulla piaga, o meglio sulla domanda senza risposta: Perché siamo sulla terra? Ma, per non venir meno alla sua fede cristiana, oltre che alla sua integrità intellettuale, si limita a dichiarare insufficienti le varie risposte e si astiene dal continuare. A noi basta sapere che non c’è un intento malvagio e beffardo nel farci un dono per poi riprenderselo, ma che si tratta soltanto di una “legge” universale, secondo la quale tutto ciò che ha un principio ha anche una fine, che si tratti della vita di una stella o di quella di un’effemeride. Andare oltre non è possibile ed è quindi meglio fermarsi qui.

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