El Pueblo Unido Jamás Será Vencido. Questa canzone cilena, resa famosa dal gruppo musicale degli Inti Illimani forse può far sorgere delle nostalgie in chi, come me, non è più nel fiore degli anni, ed insieme alla nostalgia un po’ di rammarico per le illusioni che suscitò nei giovani (e anche nei meno giovani) di allora, per la speranza che recava con sé: quella che un popolo unito, forte, coeso, amante della libertà e della democrazia, un “popolo unito” sarà sempre vincitore. Questa illusione durò solo pochi anni, fino a quando il presidente cileno di allora, il democratico Salvador Allende, con un golpe fu deposto da colui che fu conosciuto come il sanguinario dittatore fascista Augusto Pinochet che per tutto il periodo della sua presidenza spense nel paese e nel suo popolo il sogno presagito in quel famoso canto di libertà.
Questo triste episodio della morte di una democrazia mi richiama alla mente le parole di Nietzsche in Così parlò Zaratustra: “Quello che ha nome Stato è il più gelido dei mostri. E gelidamente mentisce e dalla sua bocca scaturisce questa menzogna: io, Stato, sono il popolo” (Longanesi, 1972, p. 111). Forse non è del tutto vero e non si applica indistintamente a tutte le forme governative, attuali e del passato, ma in quelle parole vi era una radicata realtà sottostante, in quanto, come diceva Joseph A. Schumpeter, grande economista austriaco del XX secolo: “Democrazia non significa, né può significare che il popolo governi realmente … La democrazia significa soltanto che il popolo ha l’opportunità di accettare o rifiutare gli uomini che dovranno governarlo”. (Capitalismo, Socialismo, Democrazia (Etas Kompass, 1973). Dal che ne deriva che la tradizionale insofferenza degli elettori quando vanno al governo coloro che essi stessi hanno votato, non è che da addebitare a loro stessi, perché è loro la responsabilità delle scelte che hanno fatto. E, tanto per chiarirci le idee: “Democrazia non indica — come la parola lascia intendere — un sistema politico nel quale il popolo governa, bensì un’organizzazione del potere di tipo oligarchico, corretta da periodiche elezioni, svolte con forze politiche in concorrenza tra di loro, con numerosi altri istituti e contropoteri diretti a rendere l’esercizio del governo temporaneo e riflessivo (controllato). Un vero e proprio governo del popolo non è mai esistito … e non potrebbe esistere, considerati sia le dimensioni degli odierni sistemi politici, sia il numero e la complessità delle decisioni collettive da prendere (Sabino Cassese, Il popolo e i suoi rappresentanti, Ed. Civitas, 2019)
Al riguardo, parlando della responsabilità degli elettori, John Stuart Mill, in Considerazioni sul governo rappresentativo (Editori Riuniti, 2019), sostiene il suffragio universale, ma incorpora nel sistema rappresentativo il principio aristocratico, preoccupato com’era del basso grado di intelligenza degli elettori e degli eletti, della “mediocrità collettiva”, desideroso di assicurare la scelta di “uomini capaci e indipendenti”. Ed è sempre Mill che, non dimentichiamolo, scrive nella seconda metà del XIX secolo, che in relazione alla qualità dell’elettorato fa una considerazione pregnante: “Quando in una nazione bada solo ai suoi interessi personali e non pensa agli interessi generali, di cui si disinteressa, un buon governo è del tutto irrealizzabile. È scontato che la mancanza di intelligenza è un impedimento allo sviluppo di un buon governo. Il governo entra in funzione grazie all’azione umana. Tutte le attività del governo non avranno alcuna presa se i decisori o gli elettori, o coloro verso i quali i rappresentanti sono responsabili, o l’opinione pubblica che dovrebbe controllare la politica, sono vittime dell’ignoranza, della stupidità, del pregiudizio minaccioso. Con la crescita culturale degli individui cresce invece in proporzione anche il rendimento qualitativo del governo. Un buon governo si avvantaggia se accanto a ministri capaci e di superiori virtù si trova un’opinione pubblica anch’essa virtuosa e illuminata. La virtù e l’intelligenza degli individui che compongono la comunità è dunque l’elemento fondamentale di un buon governo”.
A questo punto, prima di proseguire con l’esposizione delle considerazioni di Stuart Mill sul governo rappresentativo, è necessaria una digressione che ci impone di soffermarci, anche se superficialmente, sul grado di intelligenza e di interesse per il bene comune di chi, nel nostro Paese ha consentito, per esempio, di scegliere come suoi rappresentanti gli uomini della Lega Nord e di uno di loro in particolare: Matteo Salvini. Vi è qualcuno in Italia che possa tessere le sue lodi decantandone le virtù e le qualità di cui parla Mill? Un “cazzaro”, una persona di scarsissima cultura che si è sempre mosso in direzione del bene dei suoi soli compaesani del nord (Lega Nord), e che considera persone di seconda categoria, da disprezzare ed espellere chi non è di stirpe “padana” (o italica) o dello stesso suo colore? Che è giunto fino ad affermare che da quando gli immigrati di colore hanno messo piede nel nostro Paese sono notevolmente aumentati gli stupri, che vanta una grande simpatia e amicizia per uno dei dittatori più sanguinari e repressori del mondo moderno, cioè Vladimir Putin? Che cosa hanno visto in lui i suoi elettori per affidargli le redini del governo insieme ad altri compagni di (s)ventura della sua stessa stoffa, a prescindere dalle colorazioni politiche. E che dire della premier del governo di cui lui è parte importante, che vanta solida amicizia con un presidente come Viktor Orbàn, dell’Ungheria, che, pur facendo parte della UE e della NATO, ne è uno dei più tenaci detrattori. Potremmo continuare ancora a lungo, ma i lettori informati sanno benissimo di cosa stiamo parlando.
A cimentarsi su questo delicato argomento, è stato anche uno dei nostri più grandi filosofi, Benedetto Croce, che in un saggio del 1950, dal titolo Ufficio ideale del suffragio universale, a proposito dell’elezione quale scelta dei capaci, seguiva la traccia lasciata da Hans Kelsen, grande giurista e filosofo cecoslovacco del XX secolo, il quale osservava che «in contraddizione con la sua natura è “reale merito della democrazia di garantire la migliore scelta dei capi”, ma per Kelsen questo non avveniva grazie al suffragio ristretto, bensì “mettendo la conquista del potere in pubblica gara”». Croce, dicevamo, il quale era dell’opinione che nel “suffragio ristretto gli elettori debbano presumersi tali che posseggano in qualche modo l’idea del bene dello Stato e si orientino conforme ad esso, guardando più in là degli interessi privati”. Quando, però, il suffragio diventa universale “si può aspettare dalle masse così formate, consigli politici e soluzioni di problemi di governo?”. La risposta è un sonoro NO! E la prova provata noi la troviamo nel governo che gli italiani, a suffragio universale” si sono scelti per venti anni, accettando come loro guida, legislatore e pedagogo, un individuo dotato di tutte le peggiori qualità possibili e non soltanto come governante. È da trarne la conclusione, allora, che la massa degli italiani abbia visto in tale personaggio il loro ideale, tanto da tenerselo stretto per due decenni, tollerando tutte le sue magagne, che lo hanno visto protagonista (come imputato) di decine di processi? Se le cose stanno così, questo è realmente motivo di profonda tristezza.
Ritornando a Croce, “l’elettorato è — secondo lui — una «fictio iuris» e scambiarla per la realtà della storia è una ingenuità da ingenui o una storditezza da disattenti. Un hiatus che par che si apra tra gli uomini, e fra le classi dirigenti e competenti e le masse elettorali. Il punto è far sì che queste possano mandare ai parlamenti un buon numero di uomini intelligenti, capaci e di buona volontà”. Ma questo risultato non si ottiene sic et simpliciter, perché secondo il pensiero di Croce “A fare che ne esca il migliore possibile debbono lavorare i partiti, cioè i loro capi con la loro individua personalità e non certo con le sole idee sagge, sebbene queste talora non guastino, ma con tutti gli accorgimenti e le audacie che la cosa richiede, con quella che si chiama abilità elettorale perché mi pare che della classe dirigente nel senso sopradetto la storia dimostri che non si è potuto mai fare a meno”. Delle ulteriori riflessioni di Croce di Kelsen, di Stuart Mill, che rappresentano vere e proprie pietre miliari del processo democratico parleremo in un’altra occasione. Per adesso speriamo soltanto — ma con poca fiducia — che noi italiani possiamo ogni tanto ripensare a quelle commoventi parole sull’unità del pueblo, che è la vera forza delle democrazie. Unità che deve basarsi non sugli incantamenti della becera propaganda elettorale di personaggi che non meritano nessuna stima e considerazione, ma affidandoci a uomini (qualche volta è accaduto) che meritino la nostra stima per le loro capacità e per il loro profilo morale. Speriamo, prima o poi, di farcela. Auguri, Italia!